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domenica 30 gennaio 2011

Il professor Lanzani: "Abbiamo creato una retina artificiale funzionante, un giorno servirà a curare la cecità"


RICERCA SCIENTIFICA




FONTE:TISCALI NOTIZIE
DI ROBERTO ZONCA

E’ firmata dal Dipartimento di Neuroscienze e Neurotecnologie (Nbt), dal Centro di Nanoscienze e Tecnologie dell'Istituto Italiano di Tecnologia (Cnst - Iit Polimi) e dal Dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano la messa a punto del prototipo della prima retina artificiale al mondo perfettamente funzionante. Il team di ricercatori, alcuni dei quali freschi di dottorato (Diego Ghezzi, Maria Rosa Antognazza e Erica Lanzarini), è stato coordinato dal professor Guglielmo Lanzani, fisico e professore associato presso il Politecnico di Milano e dal collega Fabio Benfenati. Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati su Nature Communications, è partito dalla necessità di voler trovare una rimedio ai problemi legati al malfunzionamento della retina umana. La soluzione è giunta unendo una miriade di altissime competenze che ha permesso di sviluppare una retina artificiale che consiste in un'interfaccia tra le cellule nervose e un materiale organico semiconduttore chiamato rr-P3HT:PCBM. Questo, sebbene al momento sia stata fatta esclusivamente una dimostrazione in vitro, mima il processo a cui sono deputati i fotorecettori presenti nella retina: capta gli impulsi luminosi, li converte in segnali elettrici e li invia al cervello attraverso il nervo ottico. Su questa importante notizia abbiamo intervistato il professor Lanzani, coordinatore dello studio.Come si è giunti alla creazione di questa retina artificiale?
“Non è stato un caso. Siamo arrivati a creare questa ‘protesi’ attraverso una programmazione precisa. Abbiamo usato dei semiconduttori organici, materiali artificiali creati in laboratorio - a base di carbonio -, che risultano essere molto simili alle sostanze che si trovano in natura. L’uso di questo materiale garantisce una biocompatibilità maggiore, in quanto soffice e leggero e flessibile: in caso di un’integrazione in una protesi potrebbe presentare notevoli vantaggi. Questi materiali vengono solitamente usati nelle celle fotovoltaiche, e hanno pertanto la naturale capacità di assorbire la luce per poi creare delle cariche elettriche: fenomeno alla base della stimolazione dei neuroni. La prima cosa che abbiamo fatto è stata studiare la compatibilità dei neuroni, depositandoli e facendoli crescere sul nostro semiconduttore organico. Così facendo abbiamo visto che i nostri neuroni crescono bene, cosa non del tutto scontata. In un secondo momento abbiamo stimolato otticamente il semiconduttore organico e notato che il segnale luminoso veniva trasformato in un segnale elettrico: siamo riusciti a far vedere la luce ai nostri neuroni”.Quale sarà il prossimo passo?
“Ora abbiamo fatto una ‘prova di concetto’, dimostrando che utilizzando questi materiali e il trasporto ionico del liquido in cui i neuroni vivono, si riesce a realizzare questa interfaccia quindi a foto stimolare i neuroni. Una protesi vera e propria la realizzeremo in seguito: dovrà essere più grande e di materiale maggiormente flessibile: alla fine studieremo la biocompatibilità inserendola in un topo”.Quando potrebbe esser disponibile sul mercato?
“Parlare di un inserimento sul mercato è prematuro. Se tutto andrà bene serviranno alcuni anni. Prima dobbiamo studiare la biocompatibilità nel suo complesso, inserendo la retina in un topo, e poi dovremo trovare un modo per ingegnerizzare il dispositivo, rendendolo bio-mimetico. A quel punto sarà indispensabile trovare un contatto con dei colleghi specializzati in chirurgia oculare. La nostra come si evince è una ricerca estremamente multidisciplinare”.Chi usufruirà di una di queste retine artificiali potrà riacquistare una vista “normale”?
“Questo è molto difficile da stabilire. Oggi non siamo in grado di sviluppare una retina artificiale capace di svolgere le complesse funzioni di una retina biologica. Anche con le protesi al silicio più moderne si riesce al massimo a distinguere delle lettere retroilluminate: niente più che sagome. C’è una strada complessa ancora da percorrere e per farlo è necessario un lavoro congiunto di fisici, chimici, ingegneri e psicologi. In sintesi si dovrà cercare di comprendere il meccanismo della visione, ancora poco chiaro. Noi siamo comunque riusciti a dimostrare che i nostri materiali sono in grado di visualizzare, sebbene in teoria, anche delle immagini a colori. Come queste possano esser poi trasmesse al cervello è tutto da chiarire”.Anche un non vedente che non abbia subito danni al nervo ottico?
“E’ il nostro obiettivo finale. Noi speriamo di arrivare un giorno a questo importante risultato. E’ stato così per l’orecchio: i primi impianti erano molto rudimentali e facevano distinguere vagamente i rumori, adesso siamo arrivati ad una risoluzione del suono quasi uguale a quella naturale. Per la visione è molto più complicato, ma confidiamo nel riuscire negli anni a sviluppare un occhio bionico in grado di eguagliare o persino superare le capacità del suo corrispondente biologico”.Questa retina artificiale avrà una “vita illimitata” o rischia il deterioramento?
“Rischia un deterioramento, ma si dovrà capire in che modo. Posso dire che le celle fotovoltaiche organiche hanno una vita media di 10 anni. In questi dispositivi c’è però un elettrodo, che noi abbiamo sostituito con il liquido ionico: confidiamo sia un’idea vincente. Sono ottimista, dico che spero che le nostre retine artificiali possano vivere almeno 10 anni”.Si può migliorare questo dispositivo? Qual è il suo sogno?
“L’ostacolo più grosso è relativo alla comprensione del meccanismo della visione e alla codifica delle informazioni da mandare al cervello. Il dispositivo ideale, che cercheremo di fare, è una retina artificiale completa in cui abbiamo una distribuzione spaziale dei fotorecettori simili a quelli della retina naturale. Questa segue una geometria particolare che si chiama log-polare: cercheremo di riprodurre il tutto in una retina artificiale e per comprenderne meglio il funzionamento la installeremo in un robot”.I risultati da voi ottenuti potranno esser utili anche in altri campi?
“Sì, quello della retina è l’impiego più immediato, ma ne esistono molti altri. L’ocpogenetica, area emergente delle neuroscienze che mira a servirsi della luce per stimolare le aree neuronali, potrebbe un giorno servirsi dei risultati da noi ottenuti per curare le malattie del sistema nervoso”.I tagli alla ricerca interessano anche le vostre strutture? Con quali conseguenze?
“Sono un docente del politecnico di Milano e direttore del Centro di Nanoscienze e Tecnologie dell'Istituto Italiano di Tecnologia, nel politecnico di Milano. Come Iit siamo un’isola felice: Iit è un esperimento italiano che effettua ricerca in maniera differente, e in cambio di questo abbiamo un livello di finanziamento adeguato. Come politecnico di Milano le cose cambiano e i tagli sono pesantissimi: di fatto non abbiamo più agenzie a cui rivolgerci per i finanziamento nazionale. Esiste qualcosa per i finanziamenti regionali, ma la situazione è realmente difficile. Speriamo che questo ultimissimo studio possa darci una mano. Il nostro Paese sforna ottimi ricercatori: alcuni scelgono di andare all’estero, perché trovano condizioni di lavoro migliori altri restano e accettano di combattere contro mille difficoltà che distolgono dagli obiettivi principali. Confidiamo nei politici e nella possibilità che presto possano considerarci una risorsa in cui investire”.Che cosa manca alla ricerca italiana per potersi confrontare con il mercato internazionale?
“Le risorse umane di certo non mancano. Il problema è la carenza dei finanziamenti, ma questo è assodato. Sentiamo inoltre la mancanza di una struttura, di una organizzazione intorno alla ricerca che, se anche è vero in Italia esiste, è spesso mal funzionante: io devo combattere con una burocrazia assurda, che va contro ogni mia esigenza e sembra fatta appositamente per non farmi lavorare. All’estero questi problemi non esistono. Negli Stati Uniti, in Inghilterra e soprattutto in Finlandia, in periodi di crisi, il governo investe nella ricerca, mentre da noi accade esattamente il contrario”.I privati credono sufficientemente nella ricerca italiana?
“Ci sono alcune grosse industrie che investono sulla ricerca, ma sono veramente pochissime. Il problema è che il tessuto industriale italiano è composto principalmente da piccole e medie imprese che non investono nella ricerca in quanto non hanno prodotti ad alta tecnologia. Quelle poche che avrebbero interesse ad investire hanno spesso paura, scoraggiate anche dalla eccessiva burocrazia”.

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