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domenica 28 novembre 2021

La verità è che non te ne sei mai andato di Maurizio de Giovanni

 






FONTE: FACEBOOK

La verità

La verità è che non te ne sei mai andato.
Da quel pomeriggio di luglio, quando salisti questi gradini e uscisti nel sole e nell’amore di ottantamila pazzi di te, stretti da ore nel caldo solo per sorriderti. Ti guardasti attorno e lo capisti in un attimo, che questa era la tua erba e la tua luce, perché i grandi amori se sono veramente grandi si sentono sulla pelle del cuore.
La verità è che non te ne sei mai andato, perché questa è l’unica grande città che ha una maglia sola, ed è una questione di colore, perché se è vero che siamo figli della nostra montagna piena di fuoco e sempre pronta a esplodere, è anche vero che siamo immersi in un azzurro che assomiglia al paradiso: e tu diventasti subito nato qui, perché può essere un caso nascere in un posto, ma non lo è mai quando ci si guarda attorno e si dice sì, questa è proprio casa mia.
La verità è che non te ne sei mai andato, perché ti ci volle un attimo per decidere, con assoluta chiarezza, che avresti vinto per noi e che noi avremmo vinto con te. E se ci pensi adesso è strano, perché né tu né noi avevamo vinto mai: e tuttavia fu chiaro che da quel momento cambiava tutto, perché tu avevi trovato la tua aria e la giusta temperatura, e noi avevamo trovato il nostro capitano.
La verità è che non te ne sei mai andato, perché certe emozioni rimangono impresse sull’anima per il lampo intenso che le fissa, come su una pellicola, per sempre. E quell’emozione sei tu, perché sei venuto a insegnarci che non è vero che qui si può solo perdere, che siamo subalterni, che le decisioni importanti si prendono altrove e possiamo solo subirne gli effetti. Tu, piccolo e fiero, petto in fuori e mento alto, occhi allegri e felici di correre dietro a un pallone, e genio, genio, genio senza fine, contro il quale nessuno poteva fare niente, nessuno può fare niente.
La verità è che non te ne sei mai andato, e ci hai insegnato che possiamo anche salire in vetta assomigliando a noi stessi, rimanendo esattamente come siamo, senza dover imitare qualcun altro. Si può guardare tutti dall’alto essendo piccoli e bruni e fieri, senza odiare e senza abbassare la testa, rispetto per chiunque e paura di nessuno, cadendo mille volte e rialzandosi milleuna, senza timore dei calci e degli sgambetti, più forti dei mille destini scritti altrove.
La verità è che non te ne sei mai andato, e se esiste la tristezza di non poterti più vedere sorridere dalle tribune di questa che è la tua casa, resta il fatto che c’è un pezzo di te in ogni maglia azzurra, qui dentro e in ogni campetto e in ogni piazza, perché il nome di questa città resterà legato al tuo e il tuo a questa città.
La verità è che non te ne sei mai andato, quindi no, non sentiremo la tua mancanza perché sarai con noi, una perdita non è un’assenza ma un tipo diverso di presenza.
E ogni volta che un ragazzo con la maglia color del mare correrà a braccia alzate sotto la curva, noi vedremo te.
Con una lacrima dentro un sorriso.
Maurizio de Giovanni, novembre 2021



Tu, Michela S


 e altri 1577



“Bella da morire” al Teatro del Giullare per la giornata internazionale della violenza sulle donne

 


Fonte:www.lapilli.eu

di Maria Serritiello

Il 25 Novembre è stata la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, manifestazioni ovunque per ricordare i diritti inviolabili dell’altra metà del cielo. Il Teatro del Giullare di Salerno ha manifestato, come sa, ospitando uno spettacolo, scritto da una donna Tiziana Beato, collaborata da un uomo Antonio Mocciola e recitato da una donna Adele Pandolfi. Il titolo del monologo della durata di un’ora è “Bella da morire”.

Con parole essenziali ed incisive, Concita De Luca, rappresentante dell’ordine dei giornalisti e giornalista ella stessa in Salerno, introduce lo spettacolo del Giullare, reggendo in mano un paio di scarpe rosse, divenute simbolo della mattanza perpetrata ai danni delle donne. Indica, con mano accusatoria, nella prima fila, il posto vuoto di una donna se non fosse stata uccisa. Nel 2021, in meno di un anno, le vittime sono già 109 di numero, di cui 63, morte per mano del partner o di un ex, le uccisioni sono in aumento dell’8% in questo anno. Il teatro può, con la sua immediatezza, giungere alle corde più intime di chi lo frequenta e replicare contenuti al di fuori di esso, cosicché   un cambio di passo si potrà ottenere, insieme al resto, con la cultura. Se si vive solo per soddisfare bisogni primordiali, perché la conoscenza non ha dirozzato, è più facile sopprimere chi è più debole: la donna.

Si fa buio in sala e si va ad iniziare.

La scena scarna evidenzia una sedia ed una cornice e in angolo una salma ricoperta da un lenzuolo bianco, adagiata su di un carrello. Per contrasto alla lugubre figurazione, sparata nelle orecchie è la canzone “Vivere”. Fa un certo effetto con il morto di fronte, ma con curiosità si ascolta la canzone di Cesare Bixio del 1937 cantata da Carlo Buti, tratta dall’omonimo film

Appare lei, Anna Sole, con un camice bianco da lavoro, il pennello da trucco in mano, chinata sul viso della salma. Si capisce subito che è una makeup artist of the dead. La donna dà inizio, mentre esegue il trucco, ad una serie di riflessioni, ad un sincero sfogo, tanto dice il morto è morto e sarà benevolo nei suoi riguardi. Si apprende che è infelice, si sente sola, non ha frequentazioni per via del suo lavoro, meno che mai un fidanzato, perché credono che porta iella. E’ sfruttata dal suo principale, interessato solo ai denari ed al guadagno, per cui la incita a far spendere più soldi alle famiglie dei defunti. Lei crede, invece, che il cocchio tirato da otto cavalli e la bara in rovere o altro legno pregiato, felicità del suo cupido padrone, non serva a nulla, se non a scaricare il senso di colpa dei parenti o a farli apparire migliori di quel che sono. Lei è una ragazza semplice, ai suoi morti vuole bene, passa con loro parte della giornata, le fanno tanta compagnia e sebbene prenda le mazzette, se riesce a vendere un buon funerale, è dispiaciuta. Conosce i clienti da come si presentano e ciò che le chiedono, ce ne sono di varia umanità: i presenzialisti i latitanti, gli amatori i camorristi e di ognuno Maria Sole (Adele Pandolfi), ne imita la voce, caratterizzando da brava attrice qual è, la volgarità, la presunzione, la superbia, il comando, gli affranti dal dolore.  A volte la sua voce s’incrina, il tono recitativo  diventa tenero per quei morti solitari, quelli che hanno lascito i soldi del funerale per non dare fastidio, né impaccio economico per chi resta, ecco a quelli cesella sul viso un maquillage perfetto. Solo ai camorristi non trucca, nemmeno per una buona mazzetta. Parla con i morti perché non fanno niente, sono amabili perfino più di   sua madre che le rimprovera di non trovarsi uno straccio di marito. Con i morti, intorno c’è silenzio, ma lei è contenta perché l’assenza di suoni e parole, la si può riempire a piacimento. Il monologo va avanti, Maria Sole, ma più precisamente l’autrice “Tiziana Beato” nelle parole crude della morte, inserisce elementi favolistici, per cui dire della “petit mort”, sottintende la morte apparente della Bella addormentata nel bosco. Per fare la tanatoprattore, ovvero il trattamento post mortem, ha dovuto studiare varie discipline: chimica, anatomia e concetti di psicologia nei confronti delle famiglie, la sua è una professione importante, dice. Una sera rientrando dal silenzioso lavoro, trovò la sua casa inondata da tanto suono, da poco era terminata la duemila quarantaseiesima puntata di Beautiful, sua madre era dinanzi alla tv esanime, era morta con la musica. Suo padre l’aveva già lasciata, adesso è sola, perciò parla con i morti.

Il testo significativo ed intenso è recitato con bravura ed espressività variata da Adele Pandolfi, attrice di consumata professione, basti pensare alle 296 puntate dalla prima, nei panni di Rita Giordano, nella soap opera Un posto al sole. E’ anche autrice di un libro Morta di soap pubblicato nel 2001 e nello stesso anno è guest star in un episodio di Una donna per amico. Lavora prevalentemente in opere teatrali. E’ un’attrice a tutto tondo, Adele, e con la sua performance ha valorizzato a pieno l’ottimo lavoro di Tiziana Beato, che è stata coadiuvata dal drammaturgo e scrittore teatrale, Antonio Mucciola. La regia è stata affidata a Pier Paolo Palma, un esordiente talentuoso e l’aiuto regia a Giorgia de’ Conno, le musiche originali sono di Andrea Boccia. Un buon team, affiatato e pronto per riscuotere successo

Tiziana Beato, una vecchia conoscenza sia per me (N.D.R) che per   il Teatro del Giullare di Salerno, qui nel 2014 venne a presentare il suo primo libro “La paura è bugiarda” e ancora in questo stesso luogo il debutto della sua creatura teatrale “Bella da morire”.  Una prima e della sua preferenza le siamo grati, che ha avuto, sì, il sapore amicale, ma gli applausi convinti sono stati tributati al valore intrinseco dello spettacolo.

Maria Serritiello

www.lapilli.eu









mercoledì 24 novembre 2021

“Il poteRe negato al destino dei Re” si rappresenta ogni fine settimana al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno

 



Fonte:www.lapilli.eu

di Maria Serritiello

Andrea Carraro, regista, attraverso pezzi significativi di opere di William Shakespeare, mette in scena personaggi che hanno avuto a che fare con il potere, senza goderne i privilegi, anzi vivendo ansie e tormenti imposte dal loro stato. Si scopre così, che quelli che si pensa essere uomini privilegiati, non vivono una vita migliore, sottoposti come sono dagli intrecci delle loro vite. Lo spettacolo prende forma come una sorta di teatro elisabettiano, trasportato in un sala abbandonata ed usata per fare le prove. La scena, senza essere nascosta dal sipario, appare cosparsa di oggetti inutilizzati: un ventilatore, sedie capovolte, una scala e al centro una poltrona di colore beige, priva di un bracciolo, ad indicare il trono, potere giacente dei re.

Gli attori, nel buio più totale della sala, si posizionano e sono pronti ad essere per la durata dello spettacolo: Volumnia (Cinzia Ugatti), Bruto ed Antonio (Andrea Carraro), Riccardo II (Amelia Imparato), Enrico V (Gaetano Fasanaro). Utile per la comprensione e la fruibilità dello spettacolo sono i trafiletti ad introdurre l’ambientazione, il tempo, il personaggio ed il punto esatto del recitato.  La ricerca accurata di Andrea Carraro trasposta in un pezzo teatrale, ha il pregio dell’aver scelto personaggi, che pur potendo esercitare potere per la loro genia o meriti di battaglia, sono obbligati a soccombere, così Coriolano, che per essere confermato console ha bisogno dei voti della plebe, quel volgo a cui ha negato il grano e che disprezza. Accade che “Il servo è più felice del suo re” e il si “deve” popolare, Andrea lo ripeta con grande vigoria, tanto da farlo risuonare in tutto il Giullare.

 “Ascolta questi buoni consigli, il mio cuore non è incline a piegarsi più del tuo, ma ho un cervello che sa guidare la collera ad un fine migliore

E’ Volumnia, ovvero Cinzia Ugatti a parlare, a dare buoni consigli, a provare a convincere Coriolano che faccia ritorno a Roma, a non tradire il suo sangue. La fermezza della voce, unita ad una velata preoccupazione sono porte al pubblico con grande bravura interpretativa e quando sarà Cleopatra, altro personaggio perdente, non cambia registro, l’espressione vocale è dolente, è piena di dignità. Fasciata da un abito nero lungo, che le scopre le spalle, Cinzia Ugatti, con il portamento del suo corpo dà un impronta personale al personaggio di Volumnia, prima ed a quello di Cleopatra, dopo. Di fronte ha un rabbioso Andrea Carraro, nei panni dell’offeso Coriolano, il primo re, dei quattro rappresentati. E’ se stesso nell’imperiosità della voce e nel cipiglio altezzoso ed è convincente quando con moderazione pronuncerà l’elogio funebre di Cesare. Due facce per la stessa bravura di Carraro, che di questo spettacolo è anche il regista.

Ad uno ad uno, poi, si ascoltano i pezzi di Riccardo II “Da qualche tempo” interpretato magistralmente da Amelia Imparato e il sostenuto discorso di San Crispino, recitato da un sicuro ed energico Gaetano Fasanaro. Le atmosfere profonde dello spettacolo hanno avuto risalto dalle luci della brava Virna Prescenzo

E’ stato un bell’andare al riascolto delle tragedie di William Shakespeare, le 4 romane da lui composte, spettacoli sempre più rari nel teatro odierno, per cui respirarne e viverne le atmosfere è stato oltremodo gradevole.

Maria Serritiello

www.lapilli.eu




 


 

 

 

 

 

 

lunedì 22 novembre 2021

È morto Paolo Pietrangeli, bandiera della canzone di protesta

 





Cantautore, sceneggiatore e regista, aveva 76 anni. A ottobre aveva vinto il Premio Tenco ma non era potuto intervenire all'Ariston perché già malato




Paolo Pietrangeli (Roma29 aprile 1945 – Roma22 novembre 2021) è stato un cantautoreregistasceneggiatore e scrittore italiano.


Per noi del '68 Paolo Pietrangeli è stata la colonna sonora della protesta giovanile. Basta ascoltare "Contessa " e ci si ritrova in quegli anni ed il tempo torna tutto e per intero 

Belli quegli anni, la protesta era finalizzata a migliorare la società che  da contadina si trasformava in industriale, per cui le regole andavano riviste.

Si apriva un mondo dinanzi a noi, uscivamo dai luoghi sicuri: casa, famiglia, chiesa e scuola e provavamo ad affrontare il mondo reale con spinte ideali.

Che felicità … che rimpianto!

Poi abbiamo dovuto  capire ciò che Tommaso di Lampedusa scrisse  nel suo unico libro "Il Gattopardo", neanche visto pubblicato : Cambiare tutto per non cambiare nulla.

Maria Serritiello


fonti :web

CONTESSA

Che roba contessa, all'industria di Aldo

Han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti
Volevano avere i salari aumentati
Gridavano, pensi, di esser sfruttati
E quando è arrivata la polizia
Quei pazzi straccioni han gridato più forte
Di sangue han sporcato il cortile e le porte
Chissà quanto tempo ci vorrà per pulire
Compagni, dai campi e dalle officine
Prendete la falce, portate il martello
Scendete giù in piazza, picchiate con quello
Scendete giù in piazza, affossate il sistema
Voi gente per bene che pace cercate
La pace per far quello che voi volete
Ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra
Vogliamo vedervi finir sotto terra
Ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato
Nessuno piu al mondo dev'essere sfruttato
Sapesse, mia cara che cosa mi ha detto
Un caro parente, dell'occupazione
Che quella gentaglia rinchiusa lì dentro
Di libero amore facea professione
Del resto, mia cara, di che si stupisce?
Anche l'operaio vuole il figlio dottore
E pensi che ambiente che può venir fuori
Non c'è più morale, contessa
Se il vento fischiava ora fischia più forte
Le idee di rivolta non sono mai morte
Se c'è chi lo afferma non state a sentire
E' uno che vuole soltanto tradire
Se c'è chi lo afferma sputategli addosso
La bandiera rossa ha gettato in un fosso
Voi gente per bene che pace cercate
La pace per far quello che voi volete
Ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra
Vogliamo vedervi finir sotto terra
Ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato
Nessuno piu al mondo dev'essere sfruttato
Ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato
Nessuno piu al mondo dev'essere sfruttato




Figlio del regista Antonio Pietrangeli e di Margherita Ferrone, negli anni sessanta inizia a comporre canzoni a sfondo socio-politico, inserendosi ben presto nel filone della canzone di protesta. Dal 1966 fa parte del Nuovo Canzoniere Italiano. Alcune delle sue composizioni divengono estremamente popolari all'interno dei movimenti giovanili di sinistra a partire dalle agitazioni del 1968. Due in particolare si trasformano in veri e propri 'inni', il cui successo perdurerà negli anni a seguire: Valle Giulia e, soprattutto, Contessa, entrambe incise con la seconda voce di Giovanna Marini, altra grande interprete delle canzoni di protesta.

Nel 2008 Ala Bianca pubblica Antologia, doppio Cd che racchiude buona parte della sua produzione. In tutto 48 brani, tra i quali  

Valle Giulia

Valle Giulia è ispirata dagli avvenimenti del 1º marzo 1968, quando presso la facoltà di architettura dell'università di Roma, situata in via di Valle Giulia, avviene il primo grave scontro tra gli studenti che occupano la Facoltà e le forze dell'ordine. Il ritornello della canzone, non siam scappati più, non siam scappati più, "fotografa" quel che avviene effettivamente: il primo esempio in Italia di contrapposizione diretta tra studenti e polizia.

Contessa

La fama di Paolo Pietrangeli è però dovuta soprattutto a Contessa, vera e propria colonna sonora del 1968 italiano. Pare che Pietrangeli l'abbia scritta ispirandosi a una conversazione intercettata, in modo del tutto involontario, in un elegante caffè di Roma nel Quartiere TriesteContessa diviene negli anni seguenti una canzone popolare nella vera accezione del termine. E della canzone popolare riprende stile e andamento, nonché l'argomentare che propaganda il parallelismo tra lotte operaie e studentesche (una delle parole d'ordine dell'attività del movimento studentesco che infatti nel 1969 va a saldarsi con il montante autunno caldo delle proteste operaie).

L'attività cantautoriale di Pietrangeli non si interrompe negli anni ed è durata per tutta la sua vita. Tra le canzoni scritte in anni successivi a Contessa, è da ricordare Il vestito di Rossini, con la trouvaille dell'aria della canzone ispirata a una cavatina di Gioachino RossiniSul finire degli anni sessanta, parallelamente all'attività musicale, Pietrangeli inizia ad occuparsi attivamente di cinema. Negli anni successivi 'abbandona' di fatto la regia cinematografica per dedicarsi a tempo pieno alla regia televisiva e realizza sulle reti Fininvest programmi di vastissimo successo popolare come Maurizio Costanzo Show e Amici di Maria De Filipp La sua vita si divide tra il lavoro in TV e


 



venerdì 19 novembre 2021

Resilienza 3.0 di Massimiliano Gallo, allo Charlot di Capezzano (SA) per la stagione teatrale 2021/22

 


Fonte:www.lapilli.eu

di Maria Serritiello


Lo spettacolo “Resilienza 3.0” di Massimiliano Gallo, venerdì 12 ottobre ha inaugurato la prima stagione teatrale del Teatro –Cinema Charlot di Capezzano, una frazione di Pellezzano, che dista da Salerno, solo 10 Km. Il Teatro, a cui è stato dato il nome di Charlot, il comico più grande di tutti i tempi e non poteva non essere che così, essendo il locale una costola della famiglia Tortora, nei panni di Gianluca e di un compagno di viaggio Piermarco Raniero Fiore. La struttura, un gioiellino, che già il 16 luglio ha tagliato il nastro per presentarsi al pubblico, ma solo adesso ha spalancato le porte, per iniziare la stagione teatrale, con 8 spettacoli in cartellone, fino a marzo 2022. Bella impresa, lode ai due giovani imprenditori per aver scelto, in un momento di depressione dello spettacolo, causato dalla pandemia, aprire un nuovo teatro, laddove gli altri li chiudono. Al loro coraggio va tutta la nostra vicinanza e partecipazione. 

A cominciare, dunque è Massimiliano Gallo, figlio d’arte, suo padre, infatti, è stato, nel passato, il cantante napoletano di grande successo: Nunzio Gallo. Teatralità garbata e sicura, quella di Massimiliano, con la buona capacità di destreggiarsi sia vocalmente che con il ballo, fa molta simpatia presso il pubblico, che non gli lesina applausi. Ha fine dizione, soprattutto nel cucire addosso a sé e alla sottile signorilità della moglie, uno spettacolo gradevole, leggero, anche se non mancano spunti di riflessione meritevoli di un programma più ampio ed attento. La napoletanità che ci si aspetterebbe, molto raramente, fa capolino nella performance, realizzandola quasi in punta di piedi, affidando alla grande maestria dei musici pezzi musicali nazionali tirati a lucido e interpretati dal nostro con padronanza e personalità.

Il desiderio di un pensiero e quindi di un percorso alternativo lo si può cogliere già nel titolo: “Resilienza 3.0”, dato allo spettacolo e subito chiarito e spiegato dalla voce registrata dello scrittore Maurizio de Giovanni, intellettuale di spicco in libreria ed in televisione.  La rappresentazione, un insieme di riflessioni ed argomenti seri, sia pure in atmosfera leggera, sono, in sostanza, le sensazioni che ognuno di noi ha provato durante la chiusura forzata nelle case, così inusuale.  Gli intermezzi di Shalana Santana, la bella consorte brasiliana di Massimiliano, sono delle riflessioni a voce alta, problematiche che trovano un pubblico attento, avendo condiviso le stesse ansie quotidiane, pesanti e difficili, così come le ha descritte Massimiliano. Nello spettacolo, poi, si alternano canzoni mai banali o sketch mai villani di Massimiliano. Tutto l’insieme è dosato, la parte recitata fa l’occhiolino alla canzone che viene esaltata dalla voce bene impostata di Pina Giarmanà.

Allo Charlot di Pellezzano, Massimiliano si presenta in semplicità, non strafà, si muove con discrezione, quasi sia ancora in lockdown e affida alla sua capacità di essere se stesso, anche in palcoscenico, la sua valentia attoriale, così che la recitazione non risulta mai forzata, ma si caratterizza, come in televisione, quando interpreta il marito della sostituto procuratore Tataranni, personaggio della scrittrice Mariolina Venezia.

Tutto scorre liscio, uno spartito, dunque, ben organizzato, in due tempi equamente diviso tra momenti recitati e quelli cantati, il risultato è di una piacevole gradevolezza, che è voluta per riabbracciare ruffiano il pubblico, tenuto fin qui sottovuoto.  Nessuno a conclusione di tanta dosata signorilità si sarebbe aspettato il Coup de théàtre. Ebbene in sala, su ogni poltroncina azzurra si lasciano notare copie di giornali datati, tutti ci siamo chiesti (N.d.R.) quale fosse la loro utilità. Ed ecco che Massimiliano, come già Don Lurio, famoso ballerino della Rai TV, in uno spettacolo di tanti anni fa a “Pronto chi gioca” del 1985 / 86 fece, ha invitato il pubblico a cantare la canzoncina da lui intonata ed a strappare i giornali, imbrattando tutta la sala. E’ inimmaginabile ciò che si è scatenato tra i presenti, stropicciare, strappare e gettare le striscioline in ogni angolo è stato di una liberazione che non ha avuto uguale. Un momento corale, dove il pubblico è diventato attivo, si è coinvolto ed ha applaudito lungamente il bravo Massimiliano che ha confezionato uno spettacolo perfetto e terapeutico.

Maria Serritiello

www.lapilli.eu

 

Resilienza 3.0 di Massimiliano Gallo.

Con Shalana Santana, Pina Giarmanà, Arduino Speranza.

Musica: piano e arrangiamenti: Mimmo Napolitano, contrabbasso: Davide Costagliola, sax / clarinetto: Peppe Di Colandrea.

 

IL 20 NOVEMBRE LO SPETTACOLO VIENE REPLICATO AL TEATRO DELLE ARTI DI SALERNO






 

 

 

 

 

 

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mercoledì 17 novembre 2021

Aria di festa in Via Giovanni De Falco, al civico 1 di Salerno

 





di Maria Serritiello

Da Martedì 10 ottobre si respira un’aria diversa in Via Giovanni De Falco di Salerno, grazie alle bellissime luci natalizie istallate tutt’intorno al negozio di Rosario De Martino. Per il secondo anno, tranne quello scorso, per chiusura covid, Rosario abbellisce sia l’esterno del suo salone che tutto il rione. In anticipo sull’accensione della città, fissata per il giorno 26 novembre, ma che incontra qualche difficoltà per le regole di sicurezza, la strada che porta in Via Panoramica ha le sue belle lucine festive, senza che nessuno dei negozianti raccolga l’esempio. Le attuali di quest’anno sono davvero belle, una cascata di rosso da colpire chi vi passa vicino, dando perfino una passata di vermiglio sul colore della pelle. Un fuoco vivo che riscalda il cuore e mette allegria, in fondo il Natale fa diventare tutti più piccoli e più allegri.

Sotto le luci, il passo frettoloso dei residenti si ferma, si fissa il tempo e si prova, così, a sostare sognanti davanti ad esse, appena Rosario serra il negozio. La bella stella bianca, poi, posta nella facciata che fa angolo con Via Panoramica, riempie l’animo e tutto il circondario di candore.

Chissà perché, ogni volta che mi ritrovo a percorrere il breve tratto brillante (n.d.r), mi viene in mente la favola della Piccola fiammiferaia di Hans Christian Andersen e come la protagonista del racconto, lei nei fiammiferi accesi ad uno ad uno, io nelle luci rosse rivedo i miei Natali infantili, gioiosi pieni di doni e riscaldati dalla mia dolce mamma. Un grazie sentito mi viene spontaneo da attribuire a Rosario, per questo ricordo “da favola”

Conosciamo Rosario

Rosario De Martino, un salernitano doc, nato proprio in questo quartiere, è sposato con Elisa Quintili da 13 anni, hanno un figlio di nome Raul, che la dice lunga sulla passione di Rosario per le moto, Raul, appunto, evoca il rumore del motore in accelerazione. Il negozio di Rosario è aperto ad orario continuato per essere certi che lui c’è per le sue fedelissime clienti. Entrare nel salone pieno di luci che giungono dagli specchi, il colore delle pareti, il pavimento sempre lucido e dal candore in cui si viene avvolti, diventa un appuntamento piacevole.  Rosario è conosciutissimo in città per la sua bravura nell’uso dei colori. Un vero maestro!

Il percorso lavorativo

Nel 1992 dà inizio alla sua attività a Torrione, nei pressi di una traversa del Manila, un night, che andava per la maggiore a quei tempi, ormai dimenticato e pochi ne hanno memoria, se non per un fatto di cronaca nera. Passano due anni e nel 1994 lo troviamo in Via Giovanni De Falco dov'è tuttora. Dire di lui che è bravo e capace del mestiere, sarebbe riduttivo, lui ha una marcia in più, è uno stilista che si aggiorna, che è à la page, frequentando l’Accademia e sottraendo spazio alla famiglia ed al giorno di chiusura per conoscere le novità delle 4 stagioni. C’è un mondo sconosciuto di cui nulla sappiamo e che detta leggi su come vestirci, quali monili scegliere, che accessori abbinare in quell'anno. I target s innovativi ci vengono dalle grandi capitali della moda, ossia Milano, Londra New York. E Rosario si aggiorna, curioso delle novità da riversare nel suo mestiere, i prodotti scelti per curare i capelli sono sempre al top e si può essere certi che sono sempre di ultima generazione, per donare idratazione, riportando il capello al nutrimento naturale. Nel mestiere Rosario ci mette passione ed amore, vuole che le sue clienti portino in giro la testa con orgoglio, a cui ha dato forma e colore. Già il colore, lui è il maestro delle nuance, ora si possono ottenere con solo 15 minuti di posa, c’è poco da fare Rosario è sempre un passo avanti.

Maria Serritiello




 

venerdì 12 novembre 2021

Per quattro domeniche al Teatro Genovesi la Compagnia dell’Eclissi replica “L’acquario” di Claudio Grattacaso

 


Fonte: www.lapilli.eu

di Maria Serritiello



Ed eccoci.  Domenica 7 ottobre si è tornati a teatro, il nostro luogo prediletto, per godere di spettacoli scelti e vicini alle nostre corde: “L’acquario” di Claudio Grattacaso. Il giovane autore, classe 1962 è nato a Salerno, dove vive e svolge l’attività d’insegnante di scuola primaria. “L’Acquario” è il suo secondo pezzo, dopo “Il nodo della perpendicolare” ad essere scritto e messo in scena dalla Compagnia dell’Eclissi.

 

Tre amici o ritenutosi tali, vanno ad incontrarsi nella casa di uno di essi, Elio (Enzo Tota), scrittore in preda ad un attacco di pancia. Vive chiuso nel suo studio, circondato da innumerevoli libri, incasellati in un ordine maniacale nella libreria a parete, eccellente la scenografia di Luca Capogrosso a riprendere l’ossessività dei libri anche sulle poltrone, e sugli sgabelli. Elio si concede due finestre, aborra i balconi e da poco si è regalato un acquario che troneggia al centro della stanza, incastonato nei libri. Con i pesci, ai quali ha dato nomi importanti, è in perfetta sintonia e ritrova nell’osservarli un po’ di quel calore che gli manca. La scelta di un acquario come amico, la dice lunga sul carattere spigoloso dello scrittore. Non da meno sono i suoi amici, Donato (Felice Avella), per esempio, eternamente in fuga da una situazione familiare complessa e da sua figlia che lo spia ovunque vada e Sandro (Ernesto Fava), belloccio, che crede di essere prestante con ogni bella donna che gli capita a tiro, previo, poi a servirsi di stratagemmi, come l’autografo su di una copia del libro, scritto dal suo amico, per fare breccia sulla nuova fiamma della quale, questa volta, è follemente innamorato. Ognuno, inizialmente, lamenta la sua condizione, che alla loro età non è certo felice, poi mano a mano iniziano a graffiarsi come vecchie gatte sul loro vissuto, quasi che l’infelicità dell’uno può compensare quella propria.

Fotografia amara di una collettività sull’ orlo di una crisi profonda, di cui i tre amici ne interpretano i cardini, avendo smarriti i valori etico- estetici ed incapaci di offrirsene di accettabili. L’autore raschia sul fondo di un barile consunto di una società, che poco o niente di buono lascia intravedere, se l’amicizia, valore universale viene disinvoltamente calpestato. Si scoprono i soprannomi dei tre, ognuno sa quello degli altri due, ma non il proprio, per cui Elio è appellato “copia ed incolla”, Donato, “puffetone” e Sandro, “pisellino di legno”. Da questi appellativi s’intuiscono difetti inconfessati, sebbene la loro amicizia sia di lunga durata. Donato, che appare un infermiere ligio al dovere, non è altro che un mantenuto, e lo si scopre dal contenuto della sua borsa professionale, dimenticata occasionalmente a casa di Elio, lo stesso Elio è incapace di mantenere una relazione seria con una donna e si rifugia tra i libri dai quali attinge, si fa per dire, linfa per i suoi scritti e Sandro che fa outing sulla propria condizione sessuale. Quello che esce dalle loro bocche fa inorridire; cala mestamente sugli spettatori una scia sordida di umanità impietosa, sicché dalla sala si esce sgualciti nei sentimenti ed a nulla serve la ricomposizione finale dei tre, il danno è stato fatto ed il loro stare insieme è solo frutto di smarrimento e paura della più ingrata solitudine. 

A ben guardare fisicamente l’autore di “Acquario”, lo si direbbe  incline  all’ottimismo, un peana alla speranza,  ed invece ha portato sulla scena una borghesia lacero-contusa, senza alcuna speranza di salvezza escatologica, impigliata, com’ è, nel niente della triste condizione di vivere, nell’ affidarsi ad un effimero bene materiale, come può essere un acquario, per convincersi di buttare alle spalle il niente della propria esistenza, il  compiacersi del proprio sé e  delle proprie capacità! Fine modulo

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Bravi gli interpreti: Tota, Avella e Fava a caratterizzare i tre amici, con i loro i tic e difetti. Un intreccio perfetto di dialogo, battuta dopo battuta, spesa ad identificare caratteri e contesti, voluti dall’autore , in crescita come commediografo. Sempre dosata la regia di Marcello Andria e l’impegno di Angela Guerra, come direttrice di scena. La musica di Marco De Simone ha sottolineato, senza invadere, i momenti salienti e buono il progetto grafico di Giulio Iannece, su cui ha lavorato Luca Capogrosso. Una commedia di pregio, dunque, ad accompagnare l’apertura della stagione teatrale del Teatro Genovesi e dei suoi interpreti: Compagnia dell’Eclissi

Maria Serritiello

www.lapilli.eu





Fare San MARTINO

 


IRICEVO E PUBBLICO

IERI MI E' STATO IMPOSSIBILE POSTARE

GRAZIE ROSA LUONGO


Da : La Campagna appena ieri


Usanze, tradizioni, lavori, proverbi, luoghi e spigolature di una certa campagna emiliano romagnola di oggi e di quella dei ricordi....di ieri e appena ieri...!!!! Per ricordarci chi siamo e come eravamo.


FARE "SANMARTINO":

In Romagna, e in altre zone del nostro Paese, la ricorrenza di San Martino per i contadini significava la scadenza del contratto di mezzadria e l’evenienza dell’uscita dal podere. Non sempre succedeva, i mezzadri cercavano di lavorare bene per poter restare a lungo nello stesso podere, ma spesso subivano angherie e decidevano di lasciare per altre soluzioni o per un podere più redditizio.
Erano giorni di preoccupazioni, sia che la disdetta fosse stata data dal padrone, sia che fosse stata una libera scelta del contadino per trovare una terra migliore, perché cambiare comportava sempre un incerto e a volte ci si trasferiva lontano, in posti sconosciuti, e questo metteva sempre in agitazione la gente di campagna poco avvezza a muoversi….
E arrivava quel mattino, all’alba, in cui si caricava il carro con i pochi mobili di casa, utensili e attrezzi e si partiva…tradizione voleva che per propiziarsi fortuna nella nuova dimora non si spazzasse la cenere dell’ultimo fuoco acceso nel camino la sera prima, ma si ammucchiasse solo da un lato dell’ aròla.
Il simbolo del fuoco e del camino era così sentito che accendere il fuoco sarebbe stato il primissimo gesto che l’arzdòra avrebbe compiuto appena messo piede nella nuova casa
(“fare San Martino” si dice ancora oggi, e vuol dire proprio “traslocare”)