60 anni fa, era il 1964, Sandro Nisivoccia e Regina Senatore misero in scena il primo spettacolo del Teatro Popolare Salernitano, omaggiando William Shakespeare.
Per tale occasione si terrà un GALA di TEATRO presso la Sala Parrocchiale della Chiesa "Santa Maria Madre della Chiesa. La Sala sarà inaugurata e prenderà il nome
Con “Penelope” di Marco
Balma si torna a parlare della donna, argomento mai esaurito, perché la
questione femminile è sempre di prepotente attualità. Il viso di Vanessa
Leonini, adattamento del testo e regia, simile ad una maschera greca, di
quelle che si ritrovano ogni tanto negli scavi archeologici, è sulla scena a
fissare il pubblico, in modo quasi accusatorio, a raccogliere pensieri per dare
vita al drammatico atto unico, nella penultima serata del 15esimo Festival Nazionale
Teatro XS città di Salerno.
Il viso statico di
Penelope, per un buon lasso di tempo, resta immobile, l’attesa deve essere
introiettata, il pubblico deve sentirsi coinvolto da questa sospensione, che è
poi la caratteristica della donna più paziente della storia epica di Omero.
Dietro di lei, seduta su di una panchina, c’è buio, note musicali dolorose,
silenzio, quasi ad attendere rassegnazione, adattamento, accettazione,
tolleranza. La Penelope della Compagnia degli Evasi di Castelnuovo Magra
(Sp), vivaddio non è come Omero ce la tramanda, potenza dei tempi, ma una
donna che vuole per sé amore, rispetto, diritto di essere felice, autonomia di
decidere per il proprio destino e il proprio corpo, non solo, ma anche la
capacità di lottare per sconfiggere stereotipi che la vogliono fragile e
limitata perché, si sa le donne non vanno in guerra e non sono abbastanza
forti.
La mente va da sola
(N.D.R.) al primo romanzo di Oriana Fallaci del 1962 “Penelope alla guerra”,
appunto, che è un’esortazione a ribellarsi alle convenzioni imposte
dalla società e a vivere fino in fondo le proprie passioni, anche quando la
scelta ci porterà ad amare “chi non lo merita, quasi che questo fosse l’unico
modo per ristabilire l’equilibrio perduto del mondo”.
Si, una distrazione di
genere ed una considerazione che ancora oggi, noi donne si ha bisogno di
rappresentazioni forti, per accendere interesse ed opposizione. Intanto Vanessa
Leonini con un gruppo di prefiche, tutte in nero, danzano con passione e
recitano in coro lemmi a favore di tutte le donne. Un insieme perfetto di movimenti
sincronici che portano al parossismo i sentimenti raccolti ed espressi.
“Come batte il cuore di
una donna, cosa vuole il cuore di una donna, cosa chiede il cuore di una donna,
come soffre il cuore di una donna. Il cuore diuna donna sa combattere, sa
essere leggero. Se quel cuore è il cuore di Penelope, da quel cuore possiamo
molto imparare.”
Sono le frasi che
compongono le lamentazioni del coro e danno la spinta alle riflessioni su
quanto ancora c’è da combattere per acquisire diritti naturali
E così la domanda: quanto
tempo dovrà ancora passare prima che l’attesa finisca? E quanto ancora prima
che Penelope/donna possa essere una persona libera da schemi autoritari? E
quando uno spettacolo così bello ed articolato farà storia dietro le spalle
dell’altra metà del cielo?
La striscia di Gaza entra
prepotentemente nel nostro quieto pomeriggio teatrale, del 7 Aprile e ci
sobbalza la vita. Il “nooooooo” urlato da Akram, con quanto fiato ha in gola,
attraverso il riquadro, che funge da finestra, nello scantinato pieno di
oggetti alla rinfusa, avvia la storia che si ascolterà con sentimenti diversi
ma anche avversi.
La storia di per sé è
ridotta all’essenziale e dopo l’urlo feroce, Akram rientra nello scantinato,
trascinandosi dietro un soldato che ha preso come ostaggio e comincia la lotta,
se ucciderlo o meno.Nulla si sa dei due
uomini che si avvinghiano come serpenti, a volte sovrasta l’uno, altre volte
l’altro, ma sempre come due acerrimi nemici, di fazioni opposte. La guerra che
sta proprio sotto i nostri piedi, la ritroviamo al nostro fianco, con tutte le
implicazioni possibili, per cui Akram medico è rimasto in Palestina per poter
curare la propria gente, mentre Rinan abbandona la sua terra d’origine per
andare oltre la striscia
E Gaza con le sue stragi
giornaliere, con gli orrori inimmaginabili, con uomini che più non ricordano
l’umanità, ci avviluppa in un’aria opprimente, claustrofobica, priva di
atmosfera pura e limpidi cieli, ma solo fumo provocato dagli scoppi, con
l’odore acre delle bombe. Scorre il tempo e nello scantinato buio, senza
spiraglio di salvezza, avvolto da una colonna sonora che simula l’atroce dolore
di un popolo infelice, si consuma una tragedia familiare oltre il dramma collettivo
della striscia. Akram e Rinan sono fratelli, quest’ultimo ha ucciso i suoi
genitori perché considerati nemici. Un tuffo al cuore, alla rivelazione e non
si aspetta che l’esito finale che arriverà, com’è giusto che sia.
Tempismo drammaturgico o
solo intuizione che “Oltre la striscia” può funzionare teatralmente, essendo la
guerra appartenerci più di quanto possa sembrare?Il pezzo è stato scritto nel 2014 da un
giovane e promettente napoletano, Fabio Pisano, classe 1986 ed ha tutti
gli elementi in sé per essere un piccolo capolavoro di antica tragedia. Così all’interno della drammaturgia si assiste
ad una guerra nella guerra che poco ha a che fare con l’ostilità reale. Entrano
in gioco altri punti di vista, secondo me (N.D.R.) con la lotta che stanno
vivendo. E riflettiamo: è vero che Akram non ha scelto, non ha lasciato la
striscia, continuando ad esercitare la professione di medico per la sua gente,
mentre Rinan ha preferito andare via per realizzarsi come soldato ed ancor più come
libero innamorato. La sua donna colpita nella striscia non viene salvata da
Akram, che, a sua difesa, non la riconosce e Rinan per vendetta, uccide i suoi,
i loro, genitori, riconoscendoli, a sua discolpa, come nemici. Un po' riduttivo,
sicché il valore sacro della guerra, che pure c’è, si copre di un bieco
delitto, ma tant’è oltre la striscia, la via è senza ritorno, scampo non c’è e
così sarà.
Una regia attenta,
puntuale, carnale e vitale, come ampiamente si conviene all’età dei due giovani
e prestanti attori, Stefano Sandroni e Lorenzo Ravera, spasmodici ed
inquietanti nella loro performance artistica, sapientemente sorretta da una
colonna sonora, ora tragica, ora elegiaca, ora mesta, ora intrisa di lamenti,
tre d’union tra la scena ed il pubblico, è stato l’elemento in più
Ad un ottimo Pinuccio
Bellone, regista di spiccata bravura, attento ad ogni passaggio della
narrazione, fino al tocco finale della caduta degli aquiloni e quindi della
caduta dell’infantile innocenza dei due fratelli, che il Festival XS ha
imparato a conoscere nel tempo, va tutta la mia stima teatrale ed umana
La Corte dei Folli di
Fossano (CN) ha partecipato, precedentemente a tre edizioni del Festival
vincendole tutte e più precisamente:
Edizione 2015 con
"Piccoli crimini coniugali" di Eric-Emmanuel Schmitt;
Edizione 2018 (decennale)
con "Tango" di Francesca Zanni;
Edizione 2019 con
"Nel nome del padre" di Luigi Lunari.
Si bandisce il IV° concorso fotografico dedicato ad
Antonio Serritiello.
Il concorso fotografico giunto alla sua quarta
edizione, voluto da Maria Serritiello per ricordare il caro fratello Antonio,
ha lo scopo di mantenere viva la sua memoria nel territorio che l’ha visto
operante e partecipe, rivolgendola a quanti hanno conosciuto e amato la sua
onestà, laboriosità, attaccamento alla famiglia ed al valore sacro
dell’amicizia.
Tema
LA GIORNATA PERFETTA
Ispirandoci alla filosofia dello scrittore napoletano
Raffaele la Capria racchiusa nel libro "La bella giornata", che dice:
“Ciascuno di noi aspetta la bella giornata
legittimamente, tutta la vita.
Anzi, è la volontà stessa di vivere.
... È la causa della vita, quell'attesa:
una speranza che noi nutriamo,
altrimenti l'esistenza sarebbe inutile viverla.”
Il tema scelto per questo quarto concorso lascia ampio
spazio ad interpretazioni libere e creative.
Inviaci le foto che rappresentino la tua ideale
"Giornata perfetta"
Nei giorni scorsi, al
Teatro Ridotto di Salerno, all’interno della rassegna Che Comico 2023/2024,
direttore artistico Gianluca Tortora, è stata presentata una cab commedia
gradevolissima. In scena Ettore Massa e Massimo Carrino in “Giornalisti quasi
disoccupati”. Il pezzo è tutto incentrato a cercare, per non essere licenziati
dal giornale, dove lavorano i due articolisti, di far passare fake news per
fatti reali, il tutto condito da una vena ironica, che ha divertito molto il
pubblico.
Idee semplici, grande
affiatamento, buona professionalità e garbata capacità di porgere situazioni
già espresse con delicata e mai aggressiva comicità, magari facendo il verso a
personaggi più famosi, televisivamente parlando, ma con una ironia mai saccente,
che fa divertire prima loro stessi e poi il pubblico. La loro schiettezza è naïve
tanto da divertirsi loro stessi con mal celate ridarole. Niente di speciale è’
vero, ma sono sinceri e fanno di una loro normalità comica il momento vincente
dello spettacolo. Serenità ironica, la loro che li trasforma in comici tranquilli
della porta a fianco senza mai scadere nel clamore del linguaggio scurrile, se
non becero che i tempi attuali hanno sdoganato con disinvoltura. Comici
semplici, ma grande affiatamento ed indiscussa capacità professionale, per una
ironia semplice, di una serata sicuramente riuscita piacevole.
Gli altri due incontri,
previsti per l’annata comica 2023/2024, si terranno nel Teatro delle Arti, per
concludere degnamente la selezione comica di quest’anno.
Si sa, la vanità è donna e
non vi rinuncia neanche Ianara, una lazzara di razza pura, che si appresta a
cucinare un povero giacobino prigioniero, trattenuto nella sua misera casa. Ricoperta
di stracci che fungono da vestiti, scigliata e furiosa, si esprime, infatti,
con rabbia e con toni che polverizzerebbero qualsiasi corda vocale, la sua no (brava
l'attrice), per tutto il tempo dell’ora di rappresentazione.
La lingua, un dialetto
stretto, con parole perse nel tempo, ma che hanno una musicalità
incontrovertibile. La pièce gira tutt'attorno, non al dover trovare un
pentolone di proporzione esagerata, dove far affogare il prigioniero e dare,
così, al libero sfogo al cannibalismo, praticato da tutti i componenti della
famiglia, come fatto usuale, ma all'insoddisfazione della donna per il suo
stato di soggezione a quel marito che di umano ha solo la fisicità. Abbrutita
da una vita scadente, oltre misura, da gravidanze, cinque, sopportate suo
malgrado, ingabbiata da una da fatica giornaliera dell’ordine la casa, della
cucina, del lavaggio dei panni e dell’accudimento dei suoi chiassosi ed
ineducati figli, ha qualche sogno inespresso, eh sì, quando passa dinanzi al
piccolo specchio, appeso al muro, inspiegabilmente, del suo tugurio. Intanto il
povero giacobino, legato, imbavagliato attende la sorte malevole che gli tocca,
incassando calci e pugni dalla donna che non riesce a trovare un recipiente
adatto per la sua cottura, anzi lamenta che è troppo massiccio e che tirargli
il collo le fa specie.
Intanto, la cultura e le
buone maniere, lavorano, in prima battuta tutto a vantaggio del giacobino, che su
di esse pensa di fondere la salvezza. Forse è anche questo il messaggio tra le
righe dell’autore, che la conoscenza batte la forza bruta
dell’ignoranza, malgrado come va a finire la rappresentazione. Saldamente resto
attaccata a quest’ idea (N.D.R.) che rende accettabile questa pièce, abbastanza
inconsistente, che si rafforza solo quando Ianara racconta la favola di “Ficuciello”,
attingendo con disinvoltura alla tradizione orale, in lingua dialettale, a
lui che si finge bambino tutt’orecchie per
ingannarla. Il baciamano, poi, che porge alla donna, ormai convinta di aver
abbattute le distanze sociali in sol colpo, è l’inganno che meglio gli sia
riuscito, ma non gli rende salva la vita.
“Il Baciamano” portato in
scena dal GA D di Pistoia, per la prima volta all’XS di Salerno,
con i due interpreti: Lucia Del Gatto e Gennaro Criscuolo, il secondo
anche regista dello spettacolo, hanno reso efficace l’esibizione, coadiuvato
dai suoni scelti da Marina Criscuolo e dalla scena e costumi curati
dallo stesso GAD. Eccezionale Lucia Del Gatto ad aver prestato
quanto fiato avesse in corpo e tutte le sfaccettature della sua gola, per dare
vita ad una Ianara che più lazzara di così non si poteva impersonare. Discreto
quanto disinvolto il giacobino, una figura posto proprio per dare lustro al
baciamano della sguaiata popolana. Quanto al dialetto, così perfetto, usato
senza alcuna inflessione toscana, se ne capisce la ragione, la Ianara in
questione è nativa di Torre del Greco.
Solo oggi, a 5 giorni dalla tua scomparsa, trovo il coraggio di scrivere e neanche mi viene tanto bene...infatti già mi sono fermata e guardo la pagina bianca senza alcun interesse. Tu mi sei dinanzi e dalla tua altezza mi guardi, come quando ti ho visto per l'ultima volta a settembre, camicia e pantalone bianco, dinanzi alla chiesa di San Benedetto. C'era la tua musica, suonata nel concerto dei 4 offerti gratis a chi ama ascoltare buona musica ed io come sempre ero là presente per seguire le tue creazioni. Una premonizione, il pallore del viso, confermato di lì a poco, proprio da te: "Marì ti devo dare una notizia, non sto bene..."
Il concerto mi arrivò alle orecchie, ovattato, le tue parole da sole a martellarmi le tempie.
No, non ci riesco a considerare che tu non sia più tra noi e scrivere mi è davvero impossibile, scusami Guido. Vederti uscire dalla chiesa, al tuo funerale, è come se un pezzo di vita se ne fosse andata. La gioventù te la sei portata con te a noi hai lasciato brandelli di vecchiaia sicché là improvvisamente tutti abbiamo avuto un'età avanzata e stanca.
Provo a ricordarti con stralci di miei scritti per te e scusami se non riesco a dirti nulla di nuovo, non saprei dirti di meglio, quelli li ho scritti per te, ma presente.
Che bel lavoro, Maestro Guido Cataldo, pensato
amorevolmente per i tuoi cuccioli, così come li indichi, nella dedica iniziale,
ma anche per i bambini degli altri, è come se avessi voluto dare, in eredità il
tuo mondo poetico, fantastico, musicale. La tua anima! Hai voluto lasciare
traccia, ed ecco la ricerca accurata nell’organizzare il lavoro, per dire
pedagogicamente ai fanciulli di quest’era di guardare a fondo, non
accontentarsi di hic et nunc, tanto di moda, perché la tradizione ci dice da
dove siamo partiti, importante per dove si vuole arrivare.
E ce l’hai fatta, Guido, noi adulti che ti leggiamo ci
siamo emozionati, siamo tornati indietro nel tempo, e non con melensa
nostalgia, ma con la consapevolezza che, barra diritta, abbiamo dato e diamo
con l’entusiasmo giovanile, ogni giorno.
PS. In un giorno di fine anno, nel cortile della
scuola media di Oliveto Citra, io e te e tutta la scolaresca, di cui eravamo
insegnanti, abbiamo rappresentato Cicerenella. Uno dei ricordi più limpidi…
Mi sia consentito l’amarcord personale per i fratelli
Cataldo. Il primo: “Bartolino”, impeccabile nel suonare il piano, mio compagno
di banco nell’ultimo anno di scuola superiore, ora affermato giornalista oltre
oceano, rivisto una sola volta e per caso, in tutti questi anni trascorsi. Il
secondo “Guido” l’ottimo collega di classe e di viaggio nel raggiungere
quotidianamente la sede scolastica di Oliveto Citra. Io e Guido, insieme, su di
un testo “O cunte e Cicerenella” scritto dal padre e da lui musicato, a fine
anno, riuscimmo a far recitare e cantare tutti gli alunni della scuola. Peccato
non ci sia traccia visiva di questa performance, siamo negli anni ’80 e ancora
non era scoppiata la mania del telefonino fotografo, ma nella mente, nel mentre
scrivo, sono là, nel cortile assolato della scuola, con accanto il Maestro
Cataldo che mi accompagna con la sua chitarra, e canto felice, si perché la
musica mi rende felice, con tutti i nostri alunni.
Venerdì 9 dicembre al Teatro delle Arti di Salerno è
stato rappresentato un lavoro inedito del Maestro Guido Cataldo, dal titolo
“Voce e notte” che, sebbene non ci sorprende più per la sua bravura, riesce
sempre a suscitare forti emozioni, in qualsiasi campo si cimenti e venerdì
scorso è stata la scrittura ad essere privilegiata.
Attingere, ogni volta, al patrimonio creativo del
Maestro Cataldo è uno stato di grazia che ad ognuno di noi fa bene, una bella
pausa di emotività e un pieno di poesia, per la dolce storia d’amore
raccontata.
Naturalmente tutto parte dalla musica e precisamente
dalla canzone “Voce e notte”, la più bella serenata mai scritta da un
innamorato per la sua bella perduta. Quasi tutti conoscono la melodia ma molti
ignorano la vera storia da cui è tratta la canzone e cioè l’infelice vicenda
del poeta Eduardo Nicolardi.
A supplire questa mancanza ci ha pensato il maestro
Guido Cataldo, scrivendo una delicata vicenda, scegliendone anche le musiche,
poi, con l’ausilio di Gaetano Stella, per la regia e la compagnia teatrale di
Serena Stella, sua figlia, ha confezionato una perfetta commedia musicale. Il
maestro nella composizione del copione si è lasciato guidare dai versi composti
da Nicolardi e che musicati hanno dato luce a canzoni famose, ma anche alle
tappe della sua vita
ORCHESTRA POP SALERNITANA
LA RECENSIONE
Bella serata, quella del 6 febbraio, presso il Teatro
Augusteo di Salerno, grazie al Maestro Guido Cataldo e alla neonata Orchestra
Pop Salernitana, da lui diretta e voluta. Dopo la filarmonica del Teatro
Giuseppe Verdi, diretta da Daniel Oren e dopo l’orchestra jazz dei Deidda e di
Vigorito, l’orchestra pop di Cataldo chiude il cerchio musicale in città.
Dinanzi ad un pubblico affollatissimo, i 30 elementi, che compongono
l’orchestra, hanno dato vita ad un concerto di musica moderna di grande
qualità. E’ “Azzurro”, la celebre canzone di Adriano Celentano, a fare da sigla
iniziale alla presentazione ufficiale dell’orchestra, con un Guido Cataldo,
maestro di consumata esperienza, emozionato e commosso. Si presenta in scena
con l’inseparabile sassofono, tenuto stretto tra le braccia, come per farsi
coraggio, il creatore della Polymusic e prima ancora il musicista di spicco
degli Astrali, il complesso degli anni ’60, più amato dai salernitani. “Questa
nuova iniziativa arricchisce il panorama artistico e culturale della nostra
comunità che si conferma sempre più attenta ai fermenti espressivi più
variegati” dice il primo cittadino Vincenzo De Luca, nella brochure di
presentazione e continua “ il Comune di Salerno ha deciso di puntare sempre di
più sulla cultura, tanto come elemento dell’identità civile, tanto come
strumento di attrazione”. E l’attrazione ci sta tutta, trenta elementi, fra
musicisti e cantanti che nei loro tour nazionali hanno accompagnato star, dal
calibro, di Claudio Villa, Nicola Di Bari, Peppino Di Capri, Barbara Cola, Rita
Pavone, James Senese, Wilma Goich, Ivan Cattaneo, Tony Esposito, per citarne
alcuni. Un patrimonio d’esperienza accumulata, da non disperdere, da trasferire
nelle giovani generazioni, perché rimanga viva la continuità. Anni addietro ad
iniziare il cammino del successo fu il salernitano Jimmi Caravano, che nel
lontano 1959 vinse la selezione cantanti “Voci Nuove”, insieme a Milva, con il
notissimo Maestro della Rai Cinico Angelini e da allora un successo dopo
l’altro in tutto il mondo. A lui, presente in sala, è andato l’affettuoso
tributo di tutto il Teatro Augusteo, in piedi per la consegna del “Microfono
d’Argento”un riconoscimento alla sua luminosa carriera. La continuità del
cantante salernitano, sul palco, ora l’hanno raccolto i cantori a cappella “I
Neri Per Caso”, rispettivamente figlio, Mimì, e nipoti del grande Jimmy, che,
il Maestro Claudio Mattone, lanciò nel festival della canzone di Sanremo
qualche anno fa. Nel cerimoniale dei saluti non sono mancati quelli delle due
orchestre del territorio salernitano, nelle figure del Maestro Giancarlo
Cucciniello e il Maestro Guglielmo Guglielmi, presente anche il Maestro Antonio
Marzullo, segretario artistico del Teatro Verdi. L’assessore Ermanno Guerra,
poi, ha ricordato come l’amministrazione comunale, che ha sostenuto il progetto
della nuova orchestra, si stia impegnando per arricchire l’offerta culturale e
artistica della nostra città. L’Orchestra Pop Salernitana ha eseguito, per la
gioia dei presenti, pezzi musicali di grande valore, arrangiati in modo
personalissimo e con stile moderno a partire da: “Dieci Ragazze per me”; “Un
amore così grande” ; “Se mi lasci non vale”; “La nostra Favola” di Jimmy
Fontana, cantata in modo impeccabile dal grande Gaspare Di Lauri; “Se telefonando”
di Mina; “Gloria” di Umberto Tozzi; “Meraviglioso” di Modugno e tanti altri
brani, entrati a far parte della colonna sonora della nostra vita. Poi, il
Maestro Cataldo, ha voluto regalarci un’emozione intensa suggestiva, unica, la
versione per sax tenore e orchestra del brano”Nessun Dorma”. Il sublime si
trasferisce nel teatro e l’applauso irrompe fragoroso e si mantiene a lungo tra
gli spettatori, un bis ci sarebbe stato tutto! Infine per i musicisti e i
cantanti, tutti bravi e seri professionisti, ecco i loro nomi, in un doveroso
elenco: Antonio Panico, Massimo D’Apice e Rosapia Genovese, ai sassofoni, alle
trombe: Franco Mannara e Antonio D’Alessandro, al trombone: Fortunato Santoro,
alle tastiere: Gianni Ferrigno, Siro Scena e Casimiro Erario; al pianoforte,
Renato Costarella; alla chitarra elettrica Angelo Napoli, a quella acustica
Fabio Raiola; al basso Francesco Maiorino; alle percussioni: Oreste Vitolo;
alla batteria Enzo Fiorillo; ai violini Danilo Gloriante, Tommaso Immediata,
Carmine Meluccio, Lidia Nicolla, Giulio Piccolo, Roberto Casaburi, Annalisa
Moriello; alle viole: Pasquale Colabene, Carmine Matino; al violoncello:
Antonello Gibboni. Il coro era formato da: Gaspare Di Lauri, Angela Clemente,
Alfonso Tortora, Giorgio Veneri, Valentina Ruggiero, Samantha Sessa e da Diana
Cortellessa che, per una brutta faringite, non ha potuto far ascoltare la sua
stupenda voce. La serata è stata presentata con la solita bravura e simpatia
dal notissimo attore salernitano Gaetano Stella e si è conclusa con un medley
di canzoni degli anni sessanta e settanta.
E’ inutile girarci
intorno, la scrittura di Stefano Benni è colta, ironica, intellettualistica,
satirica; un coacervo di stili, di giochi di parole, di citazioni, tra le
tante, “Parigi brucia”, di situazioni reali o irreali, un confine non mai
specifico, che usata per una commedia “La Signorina Papillon”, destabilizza un
po'. Si ha l’impressione che l’ironia, usata nel raccontare e rappresentare,
colpisca direttamente lo spettatore, tanto da confondergli il senso di ciò che
sta seguendo. Intanto quello che avviene in scena è sogno o vita reale? E la
realtà è pilotata o libera ed il periodo a cui si riferisce è dimensione del
XIX secolo o fuori dal tempo? Si rientra così al teatro dell’assurdo, dove
tempi e modi non sono definiti. Lo spessore intellettualistico di Benni si fa
sentire per intero ed il giardino, ambientazione dell’opera, si comprende
metaforico e che in esso si vogliono raccogliere le tante storture sociali.
La signorina Papillon è
l’eterea fanciulla vestita di voile bianco, capelli lunghi e biondi che
trascorre parte delle sue giornate nello splendido, giardino, ornato da 316
varietà di rose, tutte da lei coltivate amorevolmente. Non è l’unico suo hobby,
infatti raccoglie variopinte farfalle e le conserva in vasi di vetro
trasparente. Scrive un lungo diario giornaliero, nel quale appunta tutti i suoi
pensieri. La vita le scorre tranquilla, felice di questo ritmo abbandonato,
lontano dal clamore della città. Il giardino che si coglie metaforico non
palesa a che epoca si riferisce, è un non luogo che risente del teatro
dell’assurdo. Irrompono, nella quiete bucolica dell’ingenua Rose, in modo
maldestro, tre tristi figuri: Maria Luise, l’amica lussuriosa della Parigi che
conta, il poeta Millet, uno scribacchino che crede che ricchezza e fame contino
più di ogni alta cosa ed Armand, un essere spregevole votato alla violenza e al
comando. Tutti e tre hanno un solo scopo convincere Rose a vivere una vita più
sciolta, moderna, a trasferirla nella caotica Parigi, per potersi impossessare
della sua tenuta, uccidendola.
Inizia così una lunga affabulazione
nei riguardi di Rose, con parole, sproloqui di raffinata impostazione, a volte
si ha l’impressione che tutto il testo sia un esercizio di stile, per poi
gustare la satira grottesca e gli allegri siparietti di ricercata costruzione.
Non c’è che dire un Benni in stato di grazia, il tutto a vantaggio di un pezzo
raffinato, ma difficile da seguire in ogni sua forma.
Sarà stato vero il
complotto o sarà stato tutto un sogno? Meglio credere ad un abbaglio e
rifugiarsi in rose colorate e in svolazzanti farfalle che la cruda realtà
criminale.
Un plauso convinto va
alla Compagnia Ellemmeti Libera Manifattura Teatrale Napoli. per la
scelta del testo non facile e la capacità interpretativa di tutti e quattro gli
attori.La
Compagnia è alla sua prima volta al Festival XS
Stefano Benni,
Bologna 12 agosto 1947. E’ uno scrittore, umorista, giornalista, sceneggiatore,
poeta e drammaturgo italiano.
Mariano Grillo,
ovvero la comicità curata, quella di una volta, quella ricca di contenuti e
scevra di parolacce, un testo, il suo, che abbraccia con disinvoltura, le
problematiche vissute da ognuno di noi e se le sue riflessioni fanno anche
ridere, come succede, tanto meglio. Si presenta al pubblico del Ridotto con la
semplicità di un giovanotto di 35 anni, ma con l’esperienza di uomo, marito e
padre. Le problematiche che affronta nel suo monologo, sue sono, infatti, il
pubblico le sente proprie, fino a creare con Mariano una simpatica empatia.
Longilineo, capelli corti, look sciolto e occhi grandi e tondi che sgrana ogni
volta, per sottolineare le battute a conclusione delle sue battute, Mariano ci
tiene a sottolineare che il suo cognome non ha nulla a che fare con il grillo
politico, se non una pura casualità che si tira involontariamente dietro.
“Tutto sotto controllo”,
questo il titolo dello spettacolo per due sere al Ridotto di Salerno, che
malgrado il tempo inclemente e la serata finale dell’onnipresente Festival di
Sanremo, ha visto il teatro pieno di persone, fiduciose di essersi create una
valida alternativa alla tv ed al divano.
E di battute ne ha
sciorinate tante, in quasi due ore di spettacolo, come quelle sul matrimonio
per cui dopo due anni, la moglie non chiama, convoca e si deve scattare, o
sulla città di Milano, che è conosciuta, sì, per la sua bellezza, ma
soprattutto per la ricerca di lavoro dei tanti meridionali e che alla fine
l’hanno pure trovato.Ed ancora altri
temi, affrontati con leggerezza, proprio per tenere tutto sotto controllo sono:
la pandemia, la guerra, il caro vita, la società sempre più indifferente, i
rapporti violenti, il clima, insomma il quotidiano di noialtri, che visti con
l’ottica umoristica sembrano più sopportabili. Un finale sorprendente, poi,
Mariano lo stigmatizza con una lettera aperta ed indirizzata ai suoi due figli,
nella quale trabocca tutto l’amore per i suoi piccoli, un maschietto ed una
femminuccia. Conclusione degna del suo spettacolo, con l’amore paterno da non
tenere sotto controllo e questo ci è piaciuto assai!
Maria Serritiello
Mariano Grillo,
attore e comico, è nato a Napoli trentasette anni fa.
Debutta a teatro all’età
di 10 anni recitando nella compagnia del padre, per continuare, divertendo i
suoi compagni con sketch e barzellette
Nel 2013 la RAI lo
sceglie come comico emergente e lo ospita in vari programmi Tv. A Napoli
partecipa al laboratorio comico di Made in Sud
Nel 2014 è vincitore del
premio nazionale “Campania Felix” come miglior Attore protagonista.
Nel 2019 porta in scena
al fianco di Fabio Brescia in “Due comici in Paradiso” di Biagio Izzo e Bruno
Tabacchini
Vincitore del Premio
Charlot e del Premio Massimo Troisi ad ottobre 2022 debutta a Zelig a
Milano con il suo spettacolo “Tutto sotto controllo” In teatro porta in
scena i suoi testi e di questi ne è autore e protagonista.
Con “Uscita di Emergenza”
di Manlio Santanelli e la compagnia Art Teatro e Teatro 99 posti, di
Mercogliano è iniziato il 15 esimo Festival Nazionale XS città di
Salerno. In scena Paolo Capozzo ed Alfonso
Grassinei panni di Cirillo e Pacebbene, l’uno, suggeritore di teatro e
l’altro, sacrestano fuoriuscito dalla chiesa, due personaggi sotto lo stesso
tetto uniti dalla loro stranezza e da una situazione precaria. Per 70 minuti,
tanta è la durata del pezzo, hanno tenuto discussioni in apparenza di poca
sostanza, ma che invece toccano temi importanti come: la solitudine,
l'affettività, la propria realizzazione, l'amicizia, la paura, l’immobilità. Lo
scambio di vedute, tra loro, è sempre acceso e va ad intrecciarsi in discussioni
che risentono di un certo teatro dell’assurdo, che alla fine si va
ricomponendo, con l'esistenza di una possibile uscita di emergenza per la
salvezza.
Siamo in pieno bradisismo,
in un caseggiato enorme e senza che nessuno lo abiti, con falle, scrostazioni,
soffitti cadenti e muri sfondati, hanno trovato riparo Pacebbene e Cirillo,
senza che tra loro ci sia affinità elettiva, se non per risolvere il problema
abitativo. Nell'unica stanza utile ci sono due letti, un tavolo, una sedia e
due valige contenenti gli effetti personali dei due strani amici. La
conversazione tra i due è sempre frammentaria e si accende fino al parossismo,
fino a dirsi delle stoltezze, per poi spegnersi perché è chiaro che l'uno ha
bisogno dell'altro e se sono là, da soli, senza che nessuno li cerca, li chiami
al telefono, gli offra lavoro, una ragione ci dovrà pur essere. Sono insieme per
non naufragare, tentano di sopravvivere narrandosi assurdità, rasentando la
follia, un rapporto sadomasochista, il loro, che li unisce e li respinge per
tutta la durata del giorno e a volte della notte, quando si spiano a vicenda
per sapere i segreti dell’altro. I travestimenti di Pacebbene e i suoi desideri
assurdi colorano, unitamente ad un linguaggioimpastato di
italiano e di dialetto, situazioni che oscillano tra il comico ed il tragico.
La smania di uscire da quel volontario isolamento, poi, è disattesa ogni volta,
basti pensare, però, che può sempre esserci l’uscita di emergenza, alla fine.
“Beati i senza tetto
perché vedranno il cielo” è Pacebbene a dirlo e mai citazione è più opportuna,
per i crolli improvvisi che ripetutamente si squarciano sulle loro teste.
Paolo
Capozzo ed Alfonso Grassi,
ovvero Cirillo e Pacebbene hanno ben personalizzato i due personaggi che,
grazie alla loro interpretazione, sono andati al di là di un umorismo
macchiettistico, che pur si poteva paventare Una “non cosa” che ha tuttavia
evidenziato una coppia di attori generosi, volenterosi e bravi nel districarsi
con un testo accattivante, ma non semplice. La scena, scarna di orpelli, ha
ridisegnato con naturalezza le porte e le finestre sventrate dell’impossibile
abitato, per cui i miagolii dei felini ed il brontolio del fenomeno sismico sono
entrati di prepotenza nella probabile casa, creando un clima di attesa o di
disattesa, come si vuole interpretare.
Maria Serritiello
Uscita di Emergenza di
Manlio Santanelli
Art Teatro e Teatro 99
posti di Mercogliano Con Paolo Capozzo ed Alfonso Grassi
Regia Gianni Di Nardo
Luci Luca Aquino
Manlio Santanelli è nato
a Napoli l’11 febbraio 1938 ed è un drammaturgo italiano.Laureato in Giurisprudenza con tesi di
filosofia del diritto, nel 1962 entra in Rai, dove resta fino al 1980,
anno in cui mette in scena il suo primo testo teatrale “Uscita d'emergenza”,
Premio IDI (Istituto Dramma Italiano)1979 e dell'Associazione Nazionale Critici
Italiani. Nel 1984 va in scena “Le sofferenze d'amore”, testo dal quale
viene tratto un radiodramma che vince nel 1985 il Premio Speciale della
Critica del Prix Italia. Seguono numerosi altri testi, tra i quali: Regina
Madre, Bellavita Carolina, Disturbi di memoria, Un eccesso di zelo.
Il 15esimo Festival XS città di Salerno,
organizzato dalla Compagnia dell’Eclissi, si è aperto il 21Gennaio 2024,
con un pezzo di teatro, fuori concorso di Stefano Massini: Lo Stato
contro Nolan.
La storia
Ad inizio, il sipario è
spalancato su di un’aula di tribunale che risulta essere quella della contea di
Leister. Il processo, che si consumerà a breve, è quello dello stato contro
Nolan, dove Nolan sta per il direttore del locale quotidiano, Leister Telegraph.
Che cosa è successo in questo angolo di mondo, nel cuore degli Stati Uniti,
detto “posto tranquillo” come si legge dal messaggio di benvenuto, affisso
ovunque? Un imprevedibile fatto di sangue, giusto per sconvolgere la vita dei
tranquilli cittadini. Ed ecco che, in un giorno qualunque, un bonario vagabondo
sconfina, per caso, nella proprietà di una famiglia anabattista, ma viene
selvaggiamente ucciso a colpi di fucile dal vecchio proprietario, convinto
com’è che il girovago volesse attendere alle virtù della sua giovane nipote
Else. I due erano soli in casa e la circostanza non fa altro che amplificare la
paura, tanto da far commettere il brutale assassinio. La contea ne resta
sconvolta ed ognuno reagisce a proprio modo, aiutato dall’amplificazione del
fatto, per meri interessi privati, come si apprenderà dal processo intentato.
Da questo fatto di per sé
comune, l’autore, Stefano Massini, costruisce un legal sociale, per
affrontare temi civili ed etici e non per assegnare colpevolezze o considerare
innocenze, ma per analizzare il valore pubblico della parola, particolarmente
di quella stampata, il ruolo essenziale della paura, il rapporto fra interessi
finanziari e comunicazione, i confini morali per le leggi di mercato, l’uso
indiscriminato delle armi, l’eccesso di autodifesa, la discriminazione e il
rifiuto del diverso. Temi di scottante attualità, in un mondo, il nostro che affronta
sistematicamente distorsione e manipolazione della realtà per fini politici,
aiutati dall’abilità manipolatoria dei mass media.
Così, Massini ci presenta
un vero e proprio processo e cioè l’accusa di Herbert Nolan, la sua difesa, i
testimoni chiamati uno ad uno a depositare: Else, la nipote, il giornalista, il
curato e la maestra. Tutti hanno una loro verità e nulla aggiungono di più a
quanto già si sa, se non che Nolan ha costruito un battage pubblicitario per
settimane, per dare lustro al suo giornale e, lavorando sulla paura dei paesani,
le armi vendute hanno fatto accrescere i suoi interessi economici, come
azionista della fabbrica. La difesa, intanto è sicura di sé, Nolan non potrà
essere accusato, lui ha esercitato il diritto della stampa per attrarre più
lettori, anche servendosi di notizie false, le attuali fake news, che tanto
confondono l’informazione. “Usare le parole è rischiare: chiunque parla,
chiunque scriva, chiunque si rivolga – in qualsiasi modo – a un altro essere
umano, accetta di buon grado il pericolo di essere frainteso, usato, distorto.”
Lo grida a gran voce il giornalista chiamato in causa.La parola
stampata, dunque, fa uno strano effetto sulle persone, tanto da essere considerata,
pari d’importanza, alla Bibbia e non fa altro che confermare le paralizzanti
paure che albergano, malgrado la reale realtà, nelle persone.
Tutta la rappresentazione
ha l’aria di una pièce cinematografica, i tempi sono quelli giusti, tanto da incastrarsi
in maniera perfetta, senza poter dare spazio allo spettatore, che resta
attaccato, per un’ora e mezza, al processo con un’attenzione maniacale. Il
ruolo degli attori è strepitoso, la loro recitazione è curata all’inverosimile
e va dagli strilloni, all’accusa, dal giudice alla difesa, dai testimoni a
Nolan. Un’eccezionale prova attoriale, che conferma, se ce ne fosse bisogno, la
bravura della Compagnia dell’Eclissi e la sapienza delle scelte, operate ogni
volta, sicché andare a teatro è soprattutto crescita. Un testo non facile,
quello di Stefano Massini, dall’ impianto solido e dove ogni parola ha un peso
importante, come quello assoluto delle pietre che va ad incidere, senza
sbagliare, coscienze. Già nella scelta,
di un testo così rigoroso, per i temi etici e sociali affrontati, sta la
straordinaria capacità di regia di Marcello Andria, che ogni volta si conferma
e sempre senza tema di smentita. Un bell’impegno, anche perché gi attori sono
tanti e la sua è una riuscitissima prova d’orchestra. Complimenti!
Poi gli attori. Ognuno ha
rivestito i panni giusti, dando vita ad un insieme di sequenze senza respiro.
Il pubblico, è stato consapevolmente rapito della loro capacità interpretativa
e della personalizzazione così opportuna dei personaggi, oltre alla non
trascurabile prova di straordinaria memoria, infatti il testo non lascia spazio
a nessuna vaghezza mentale. Tutti consumati attori e perfettamente a loro agio
nei ruoli assegnati, come l’avvocato Nathan, della difesa, nel sobrio abito
scuro e nel quale riconosciamo un sicuro e navigato Vincenzo Tota, o la
maestra, tronfia della sua superiorità, Lea Di Napoli o ancora il (procuratore
Eleanor E. Miles), l’accusa, Marica De Vita perfetta senza nessuna
sbavatura, anzi a suo agio, per severità e sicurezza. Troneggia in tutti i
sensi, il giudice Rutherford, ovvero Felice Avella, che ogni volta
lascia la sua impronta nei personaggi interpretati e poi tutti gli altri,
sistemati nel ruolo giusto ed opportuno per far sì che lo spettacolo risultasse
un pezzo importante, direi il più importante di questa stagione teatrale della
Compagnia dell’Eclissi, per cui lode a Maurizio Barbuto (il pastore),
ad Ernesto Fava, Herbert Nolan, al talentuoso Marco De Simone
(Norman Weiss), autore tra l’altro delle musiche originali, ad Alfredo
Marino, il caloroso, giornalista, Paul Kapinski, autore insieme ad
Emanuela Barone, delle scene ed infine, ma non per questo ultima Gerarda
Mariconda (l’impacciata Else). I costumi sono di Angela Guerra,
insostituibile nell’apporre la sua firma
Maria Serritiello
www.lapilli.eu
Stefano Massini
è lo scrittore italiano vivente più rappresentato sui palcoscenici di tutto il
mondo. Tradotto in ventiquattro lingue, celebrato da Broadway al West End di
Londra, è portato in scena dal premio Oscar Sam Mendes. Nel 2015, dopo il
grande successo del suo trittico diretto da Luca Ronconi, viene nominato
consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano. Il suo romanzo Qualcosa sui
Lehman (Mondadori, 2016), tradotto in vari paesi, è stato uno dei libri più
acclamati degli ultimi anni (premio Selezione Campiello, premio SuperMondello,
premio De Sica e ora il Prix Médicis e il Prix Meilleur Livre Étranger in
Francia). Il suo secondo romanzo è L'interpretatore dei sogni (Mondadori,
2017). Firma del quotidiano "la Repubblica", è volto noto televisivo
per i suoi racconti del giovedì nella trasmissione "Piazzapulita" su
La7.
P.S Lo spettacolo avrà
due repliche, con date da stabilire, in febbraio ed in marzo.
Così ti vorrò sempre ricordare, con questa foto manifesto che ha troneggiato, negli anni '70 nella mia cameretta di giovane appassionata di te. Un Dio greco, bello, forte e vincitore. Il Cagliari era diventa una squadra di casa, sono venuta fino a Napoli, per vederti giocare e tu bellissimo, nello stadio San Paolo eri l'immagine più bella che io ricorda. Con mio fratello Antonio, ora che lo incontri, fatti dire quanto ci hai fatto sognare in Messico '70. In quei giorni di mondiali, dovevo dare l'esame di spagnolo all'università, ma le partite erano un'attrattiva troppo forte, risultò che mi restarono solo 15 giorni per preparare l'esame, ma tant'è vederti giocare era centomila volte più importante per me, cq l'esame lo superai e ti dedicai la vittoria come tu facevi per i goal. Ricordo con apprensione il campionato europeo, nella città di Vienna e dove il giocatore Hoff ti spezzò la gamba sinistra. Vederti uscire dal campo, disteso su di una barella, dolorante, ancora mi addolora. Mi hai tenuto compagnia per molti anni, quel tuo grandissimo post, largo mezza parete, non è molto che l'ho arrotolato e conservato di nascosto in garage. Me lo aveva regalato il mio amatissimo fratello, che ti ha dolorosamente preceduto, conoscendo la mia passione per te ed io avevo regalato in cambio un post bellissimo e traslucido di Jimmy Hendrix. Che ricordi, che emozioni pure, ogni volta che segnavi. Un mare di sentimenti, ora mi agitano, la mia gioventù intrecciata alla tua vita, che manco sapevi della mia, ma la bellezza stava proprio in questa pura gioia
Non potrò mai dimenticare la partita del secolo, Italia Germania 4 a 3 dove anche tu segnasti e la gioia notturna si trasformò in apoteosi. Mio fratello, mi chiese il permesso di poter andare a comprare le sigarette, aveva 17 anni e dinanzi a me non aveva ancora fumato. Fui indulgente, quella volta e gli diedi il consenso di andarle a comprare nell'intervallo. Potrei continuare con tanti passaggi della mia vita dove tu sei stato presente, ma io stasera devo stare concentrata per trattenerti nei miei ricordi, da domani sarai di tutti ed è giusto che sia così, sei stato e resterai il grande del calcio italiano ed io così voglio tenerti per sempre
Sbelut è certamente uno
stato che Pasquale rappresenta in maniera degna, anche in maniera fisica ed
allora, dinoccolato, capelli arruffati, camicia sblusata, affronta i vari
problemi che lo rendono "sbelut". Inizia con esaltare il mare, quel
mare che è un elemento indispensabile per vivere in modo equilibrato. Affronta
vari temi con, a volte, monologhi non sense che gli fanno dire di non farcela
più. Anche la televisione lo svilisce, con personaggi, come Filumena e Gerardo,
che fanno il verso alle fiction popolari. Poi, affronta il problema body
scening e lo conclude a modo suo, con una battuta che fa sorridere, ma non
divertire. Ecco, i temi trattati sono quelli che ci ronzano intorno ma da
Pasquale sono esposti più con malinconia che con divertimento, come se avesse
preso coscienza che c’è poco da ridere e per questo è Sbelut.
Il pezzo migliore, dove
Pasquale, con la parola “Cavere”, il caldo, fa l'imitazione di Peppe Barra
infiammando lo spettacolo, ci ha fatto rimpiangere la sua imitazione di Nino
D’Angelo, che per l’occasione è Vivo D’Angelo, caschetto biondo ed il mantra
ripetuto “ Anna Marì”.
Insomma uno spettacolo di
svolta, una comicità pensata, che affronta problemi attuali con la leggerezza
della risata e non con il vuoto delle parole, solo accattivanti.
Uno spettacolo stuzzicante,
il suo, pieno di buone intenzioni, a tratti divertente, ma da Pasquale Palma ci
aspettiamo di più, perché in passato ha dimostrato di saperlo fare. E" in
crescita e con questo spettacolo è visibile.
Maria Serritiello
www.lapilli.eu
Pasquale Palma,
Nasce a Napoli nel 1986
e cresce a Giugliano in Campania (nell’area nord di Napoli). Fin da piccolo,
mentre tutti i suoi amici sognano di diventare i nuovi Maradona, Pasquale resta
affascinato da Totò, Sordi, Troisi, Verdone
Voglio ricordare il grande drammaturgo napoletano con le mie recensioni dei suoi spettacoli. Ogni volta mi sono arricchita e quel suo modo di rappresentarsi toccava le corde più intime del mio sentire.
Un vero dispiacere, ciao Enzo
Presentato al Ghirelli di
Salerno il monologo di Enzo Moscato “Compleanno”
“Ma lo sai di chi è il
compleanno oggi, lo sai? Lo sai di chi è il compleanno oggi?” A ripetere
tristemente più volte la domanda, senza ottenere risposta, è Enzo Moscato, che,
strascicando il passo, schiacciato dal peso di quegli anni, trenta per
l’esattezza e non più attribuibili ad Annibale Ruccello, sono caduti tutti
sulle sue spalle. Lo scenario, ridotto all’essenziale, è efficacemente scuro,
mai il nero del Ghirelli è apparso così opportuno, mentre nel buio, come panni
stesi, spicca un filare di palloncini colorati, segno che il compleanno davvero
ci sarà, almeno come rito che si compie. Al centro della scena una sedia,
ricoperta di voile e di rose, attira l’attenzione, mostrandosi come un vero
“tosello”, di quelli che venivano creati a Pagani dal compianto Franco Tiano,
il principe della tradizione popolare, durante la ricorrenza della Madonna
delle Galline. La sedia, trono vuoto e punto della rappresentazione, evoca
struggente la mancanza di chi, in questo giorno, avrebbe dovuto compiere gli
anni. Enzo Moscato, nel suo intenso pezzo teatrale “Compleanno” unisce allo
stesso filo, la vita e la morte di Annibale Ruccello. Quando il 12 settembre
del 1986, per un mortale incidente, si spense una delle voci più interessanti
ed originali del teatro italiano della seconda metà del XX secolo, Enzo
Moscato, suo fraterno amico e collaboratore artistico, in sua memoria compose
“Compleanno” dove l’assenza di Ruccello diventa presenza e viceversa. Un
monologo che raccoglie, come in un discorso a due, ma è solo Enzo a raccontare,
storie ricordi, episodi, avvenimenti, citazioni, tutto condensato in un
linguaggio colto, tuttavia popolare, pieno di francesismi, di parole arcaiche e
cantilene dimenticate come alcune fra tutte: “nzarvamiente”, “nu mumente, ment
accorde stu strumente” “Sant’ Antuone, Sant’Antuone pigliete o viecchie e
lasseme o nuove”. In scena mestamente Enzo Moscato, torta e candeline accese, è
pronto a festeggiare il compleanno di Annibale Ruccello, perché nel suo cuore
l’amico non se n’è mai andato. In alcuni momenti del monologo Moscato tace, sì
da rafforzare l’assenza e poter cedere la scena alla musica, quella decisa,
mediterranea, dagli arpeggi forti e dalle voci nasali incalzanti dei Gipsy
Kings, una in particolare “ Tu quieres volver” (si desidera tornare) a scandire
il tempo, le emozioni, i desideri, i ricordi. Ed eccoli i personaggi e i
simboli di Ruccello tornare, in una parata surreale: le rose di Jennifer, i
travagli di Anna e poi Ferdinando, Ines, Bolero, Spinoza, i sorci, le matte, le
gatte, Rusinella, i mutanti, i maniaci, gli innesti, le ibride, i pirati, i
priori, gli scrittori, gli inquisitori. Stupenda l’interpretazione di Enzo
Moscato che da trent’anni rappresenta con lo stesso identico calore la vita e
la morte del suo amico ed anche il piccolo incidente in scena (ha preso fuoco
la sua vestaglia mentre si è avvicinato troppo alle candele accese) è segno che
di quell’antico sodalizio non si è mai spenta la fiamma “ Chi muore giovane,
muore una volta sola, gli altri, quelli che restano, muoiono tante volte”, dice
introducendo il lavoro, il giovane attore, personale smilzo, elegante e biondi
i capelli, un Ferdinando ruccelliano per bellezza e giovinezza. “Tu quieres
volver” (si desidera tornare), ossessiva e forte si diffonde in sala a volume
alto, silenziando ogni altra parola. Magari si potesse!
Toledo Suite di Enzo
Moscato al Teatro Diana di Salerno
Il mondo emozionale di
parole e canzoni di Enzo Moscato, è
dentro lo spettacolo “Toledo Suite”,
presentato in due serate, 19 e 21 febbraio, al Teatro Diana, sala che si apre
sulla parte nuova e più bella del Lungomare di Salerno. L’attore-chansonnier,
67 anni il prossimo 20 aprile, attraverso brani di Brecht, Duras, Viviani,
Weill, Lou Reed e Taranto, compie un raffinato percorso musicale, aiutato dalla
musica di Pasquale Scialò e da Mimmo Palladino per i disegni
realizzati.
La scena è volutamente
scarna, cupa, senza nessun arredo, se non una sedia al centro, ricoperta da un
drappo rosso, con a lato un leggio, interamente addobbato da tondi e
scenografici pomodorini. Il fondale è nero, intorno un velario su cui
s’imprimono, di volta in volta, scritte ossute di un bianco iridescente.
Circonda il tutto, una serie di lucine colorate, intermittenti, a mo’ di
luminarie, per trasferirci repentinamente nei vicoli della Via Toledo,
addobbata per i suoi santi, indistintamente, laici e religiosi. Quando entra in
scena Enzo Moscato, con l’aria dimessa, in punta di piedi, sistemandosi in un
angolo, si comprende che vuole mantenere l’attenzione, non su di lui, ma su ciò
che si vede, si sente e si evoca. Così tra canzoni, scritti, brani musicali ed
immagini visive si snoda l’intero spettacolo di quasi due ore. Accompagnato da
un violino, Paolo Sasso, a volte
struggente, da una chitarra, Claudio
Romano, a segnare il ritmo e dalle percussioni, Paolo Cimino, sapientemente calibrate, tanto da essere l’alter ego
di Enzo, si ascoltano canzoni, che hanno fatto il volto pittoresco di una
città, tanto bella e tanto maltrattata. Accanto a “Palomma”, la notissima di
Armando Gill, a “Romanzetta”, a “Cerasella”, a “Che m’hè ‘mparate a fa?”a “Na
voce e na chitarra e’ o poco ‘eluna”,
ad “Anema e core” a “Lusingame” ed a “Scalinatella”, il fior fiore di una
produzione che ha accompagnato intere generazioni, troviamo brani composti
dallo stesso Moscato, musica di Pasquale
Scialò, come: “Toledo suite”, “Diva”, “Il porto di Toledo” che modernamente
ci spingono all’indietro. Enzo Moscato dal raffinato intellettuale qual è, ha
inserito nella scelta dei brani, perfino un pezzo in lingua giapponese, che
senza sforzo linguistico viene cantato amabilmente e con dolcezza, come geisha
suggerirebbe. I brani letti fanno affiorare i vicoli, il popolo e tutta quella
gente che si affida alla musica per librarsi, per evadere dalla complicata
realtà in cui sono costretti a vivere il quotidiano. E non è bello il concreto
che si para, prostitute, spacciatori, protettori, micro criminalità, accanto e
senza alcuna differenza sociale, a persone oneste, lavoratori e timorati.
Questo il volto di Via Toledo, il quartiere della sua infanzia, nello
spettacolo affettivamente omaggiato.E
poi c’è il linguaggio che Enzo Moscato usa, una sorta di cantilena che si rifà
all’infanzia, quando le parole hanno magia per i suoni arcaici che si tirano
dietro, quei suoni che mescola sapientemente a francesismi, a latino, a greco
per farne un solo impasto. Per “Scalinatella longa, longa, strettulella,
strettulella…” è bastato il movimento del drappo rosso, ondulato dalle sue
mani, per entrare nella tormentata passione di un innamorato deluso, il resto
lo fa la sua voce, morbida, confidenziale, dai toni che si ascoltano nel
passaggio da un vicolo all’altro. Un recital solo come formula scenica, ma per
le suggestioni e le emozioni che trasmette è un vero pezzo di magistrale
teatro. “Toledo fa paura, ma no è anima
pura, non è l’oscurità, o munne cheste sa…” canta Enzo Moscato ed è quello
che pensano tutti mentre si allontanano, canticchiandone il motivo
Maria Serritiello
26 02 2016
La “Grand’ estate” di
Enzo Moscato al Teatro Diana di Salerno
“Grand’estate” è
piacevolmente il solito Enzo Moscato, quello che c’è di certo del suo teatro,
con le lucine accese e spente a contornare la scena, i pochi ma significativi
oggetti, di gusto particolare, sparsi nello spazio recitativo, i veli a rendere
fluorescente tutto il racconto ed il fondale nero, su cui si disegnano siluette
di corpi femminili, quasi non visibili, gola profonda del racconto convulso ed
incalzante, a volte delirante, ma di una logica stringata, per chi segue il suo
teatro e le sue tematiche, che, in questo caso, sono di un casino dei Quartieri Spagnoli di Napoli.
I fatti narrati risalgono
all’epoca fascista e all’occupazione dell’Africa orientale, una sorta di “memento”
di anni visti dalla parte delle prostitute, ovvero da vittime di uno sport
nazionale, sempre seguito, ma che in questo periodo privilegiato. Gli anni
vanno dal 1936 fino a fare capolino negli anni ’60, precisamente a quando per
la legge Merlin, 20 febbraio 1958, furono abolite le case chiuse. Intanto in
vari capitoli di narrazione, troviamo le parole affabulanti, per il loro
magnifico suono cantilenante, deliranti ed ossessive, di alcuni personaggi, che
in numero di due, interpretano di volta in volta, Sciuscetta, Poppina, Asor
Viola, Lattarella, DDT, Fraulè, Doktor, contorniate da cinque figuranti vestiti
da marinai, per il richiamo alla navigazione ed una narratrice. Compito di
Poppina e Sciuscetta, che già nel suono dei loro nomi si scorge una vita a
margine, è quello di mantenere alto il morale della soldataglia e dei gerarchi
di stanza nel suolo d’Africa e per questo intraprendono un viaggio sgangherato,
pieni d’insidie su di un barcone che le avrebbe condotte in quella terra
lontana. Dal racconto pressante e farneticante si apprende la vita degradata e
sviata delle prostitute, un’esistenza scandita dalla voglia di loschi
personaggi, di ore di attese, di confidenze minime, di visite mediche, di
abluzioni per mantenere lo standard al loro corpo, chiuse in un sacrario,
vessate da maitresse e costrette a quella vita tutti i giorni, senza un minimo
di affettività, per guadagnarsi la marchetta di sostentamento. Eppure quanta
dignità umana possiedono “le signorine”, consegnatesi alla vita rassegnate, dall’
immorale povertà, ma non per questo senza codice d’onore, quello che manca alle
escort attuali. Hanno pensato, in modo maldestro, che era quello e non altro il
loro destino, diventando, così, più “paria” di quanto non lo fossero altre
nelle loro stesse condizioni. Enzo Moscato dà loro voce, a mo’ di risarcimento,
una pietas intellettiva, che rende giustizia e conoscenza e quello che aggiunge
di kitsch o di troppo osato, lo fa per far mandare a mente un mondo, che
sebbene esistito e forse esistente, nessuno se n’è mai occupato con l’anima. Nella
sua pièce tanta memoria collettiva a rispolverare melanconicamente il passato,
come la musica, una parte importante che, ogni volta, invade la scena, ora è
L’Isola del tesoro, sceneggiato televisivo di Anton Giulio Maiano, con
l’immancabile coro di “Quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto…”
oppure “Geppina ragazza di fumo” da Risate di gioia di Mario Monicelli, 1960,
cantata dalla voce profonda e sensuale di Anna Magnani e da l’eccelso Totò. Ciò
che affascina di più e sempre di Enzo Moscato, nei suoi originali spettacoli, è
la parola, di cui lui è maestro. Partendo da Gian Battista Basile, segue
intrecci ed architettura linguistica con una sua complessa struttura, sicché il
linguaggio che ne deduce, e sì assecondato da Basile ma è rinnovato a suo piacimento. Tra le parole e i detti
sciorinati “Marvizzo”, per indicare il tordo e “Salute a fibbia dicette don
Fabio” per dire incuranza, sono citazioni tra le altre, che affollano il
linguaggio del testo, ripescando dal profondo, dove si sono depositate, per
essere in disuso, dato il linguaggio globale di cui si fa uso. E poi le parole mormorate fiatate a due e
ripetute come in un eco immaginario e lo spettacolo s’imbuca in un coro da
tragedia greca. E’ quello il suono e quello l’antico impianto culturale con i
quali Enzo Moscato ci delizia ogni volta.
“Grand’estate”
testo, regia e drammaturgia di Enzo Moscato.
Con
Massimo Andrei ed Enzo Moscato
e
con Giuseppe Affinito, Caterina Di Matteo, Gino Grossi, Francesco Moscato,
Giancarlo Moscato.
Scena
e costumi Tata Barbalato.
Musiche
Donamos.
Maria Serritiello
21-04-2016
Al
Teatro Ghirelli di Salerno “Occhi Gettati”
Testo,
Ideazione e Regia Di Enzo Moscato
Con
Benedetto Casillo, Giuseppe Affinito, Salvatore Chiantone, Tonia Filomena,
Amelia Longobardi, Emilio Massa, Anita Mosca, Enzo Moscato, Antonio Polito.
“Occhi
Gettati”, dove “gettati” sta per dare uno sguardo selettivo su
qualcosa che molti, trascurano “una sorta di picassiana Guernica, sul
teatro, su Napoli e su me”, come lui stesso definisce il lavoro,
scritto nel 1986 e potato in scena dopo trent’anni. Del resto, gli 8
straordinari interpreti, che in cerchio affollano la scena sono corpi smembrati
dalla vita, come quelli spiaccicati nell’opera pittorica. Ed eccoli, fin
dall’inizio, prendere posto, uno ad uno, con vesti che già raccontano chi sono
stati e sono. Nello spazio recitativo accovacciati per terra, attendono la
vestizione: il velo. Il fondale è rigorosamente nero, al centro troneggia una
maxi scena di San Sebastiano, sparsi a terra petali di fiori per leggiadria di
contrasto e sotto Enzo Moscato, seduto dietro ad un leggio, segue, partecipa,
interviene, interpreta. Non mancano le lucine da festa di paese, scendere
dall’alto come timidi raggi illuminanti e lui, officiante di una liturgia laica,
a dare il via ad un racconto convulso, incalzante, a volte delirante, ma di una
logica stringata, per chi segue il suo teatro e le sue tematiche. Otto gironi
danteschi in cui si muovono: il femminiello, luparella, a strega, desnudo,
palummiello ed altre equivoche figure. Le narrazioni appartengono ad
un’esistenza di mezzo, a cui Enzo rende giustizia e conoscenza e quello che
aggiunge di kitsch o di troppo osato, è per mandare a mente un mondo, che
sebbene esistito e forse esistente, nessuno se n’è mai occupato con l’anima.
Il suo vuole essere un ennesimo
tributo al mondo altro che abita in ognuno di noi (vale anche per i non
napoletani), un mondo da alcuni accettato, da altri rimosso, da altri ancora,
solo oggetto di denigrazione e diffamazione e lo fa scegliendo un narrato corale,
polifonico con un occhio ai gironi danteschi e un altro all’accettazione che
Napule e’. Quasi un quadro di insieme,
una sorta di lascito testamentario artistico, letterario del proprio mondo.
Nella sua pièce tanta memoria collettiva a
rispolverare melanconicamente il passato, come la musica, una parte importante
che, ogni volta, invade la scena, ora allegramente con “Angelina”, cantata da Luis
Prima, con un americano approssimativo, come la lingua “ broukulina parlata dai nostri emigrati in America, o
come la leggiadria della lingua francese di Yves Montand. Un puzzle di ricordi,
di emozioni, stratificati nell’animo del grande artista. Al di sopra di tutto,
ciò che affascina di più e sempre di Enzo Moscato, nei suoi originali
spettacoli, è la parola, di cui è maestro. Una complessa struttura di intrecci
e citazioni, un’articolata architettura linguistica desunta dalle varie
invasioni subite dalla città e che affollano il linguaggio del testo. E poi le parole mormorate fiatate e ripetute
come in un eco immaginario e lo spettacolo s’imbuca in un coro da tragedia
greca. Ad unire tutto l’impianto
culturale, tutto questo mondo crudo e poetico, reso bellamente scenico da Enzo
Moscato, ripetuto più volte, come le parole recitate, per essere ben comprese,
il dolcissimo canto rievocativo di Franco Battiato, Prospettiva Nevski.
Improvvisamente, ognuno dei presenti, commossi e partecipi, sono entrati di
diritto nella creazione di Enzo Moscato.