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giovedì 21 ottobre 2010

Chelsea Hotel, da Mark Twain ai Sex Pistols


I LUOGHI DELLA MEMORIA


FONTE:La REPUBBLICA.IT

Il mitico albergo nel quartiere bohemien di Manhattan è schiacciato dai costi di manutenzione. Qui hanno transitato scrittori, musicisti, attori: tutti i divi e i loro fan. Ha testimoniato di tragedie e creazioni immortali di grandi geni, spesso squattrinati e ospitati gratis. Hillary e Bill Clinton se ne innamorarono al punto da chiamare così la loro figlia. Il suo futuro è incerto.

La camera numero 100 non c'è più ma i pellegrini sconclusionati del punk continuano a bussare ancora alla porta del Chelsea Hotel per chiedere della stanza dove finì nel sangue la storia d'amore di Sid & Nancy. La camera 822 invece è quella dove svernava Madonna, che una notte si tirò fin lassù Basquiat, l'artista: e quello famoso, ai tempi, era lui. Al piano di sotto strimpellava Bob Dylan, che aveva rubato il nome al poeta che al Chelsea Hotel era morto alcolizzato, Dylan Thomas ("Questa sera ho fatto il record: 18 wishkey"), e che era impazzito sui dischi introvabili di Harry Smith, il musicologo e mago che credeva di essere figlio del satanista Alistair Crowley, e dal giardino all'ultimo piano del Chelsea Hotel, durante un plenilunio, aveva disotterrato uno zombie - che alla clientela dell'albergo per la verità sembrava solo uno dei tanti strafatti che frequentavano la hall. Anche Jack Kerouac e William Burroughs si spingevano fin lì, per andare a trovare Herbert Hunke, il tossico e ladro che aveva ispirato l'Urlo di Allen Ginsberg: Burroughs, che era il più anziano di tutti, vestiva come un signore di un'altra epoca, e all'inizio Hunke scappava perché pensava fosse un poliziotto in borghese.

Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel, cantava Leonard Cohen, e si ricordano bene del Chelsea Hotel tutti quelli che hanno sognato New York almeno una volta nella vita, tutti quelli che l'hanno inseguita nelle canzoni, nei quadri, nei film, nei romanzi e nelle poesie, insomma tutto quello che l'albergo sulla 23esima strada sembrava essere stato costruito per evocare. E pensare che quel monumento alla bohéme era stato pensato, invece, per rappresentare le magnifiche sorti e progressive della borghesia: nel 1884 era l'edificio più alto di Manhattan e quindi del mondo, un immenso condominio di lusso svettante lì, in quella frontiera della città che fuori dai confini di Dowtown - da Wall Street a Washington Square fino al Village - si stava scoprendo metropoli. Solo anni dopo, 1905, il condominio si trasformò in ricchissimo hotel. E solo anni dopo il ricchissimo hotel infine decadde: per risorgere in mito.

Da ieri, questo mito è in vendita. Stanley Bard, il manager che fino a tre anni aveva portato avanti la tradizione di famiglia - con il motto che rovesciava il titolo di quel disco di Frank Zappa, "Non siamo qui per far soldi", e infatti per gli artisti c'era sempre un "pagherò" - dopo aver ceduto la gestione della hall si è arreso anche alla volontà dell'altra dozzina di azionisti. Toppi milioni di dollari andrebbero scommessi per rimettere in piedi la Vecchia Signora di Chelsea. Troppe ammaccatture: troppa umidità. E così è toccato al "Wall Street Journal", il quotidiano della finanza - cioè l'unico giornale che in più di cent'anni quasi nessuno dei miserabili del Chelsea Hotel avrà mai sfogliato - svelare ai newyorchesi che quel tesoro di polvere rischia di andare perduto per sempre: magari trasformato in uno di quei boutique hotel che fioriscono in città e che sono fascinosissimi, per carità, ma quanto un frigorifero.

Bard giura che l'albergo era ancora in attivo e in fondo è vero. Il ristorante El Quijote, uno dei primi spagnoli di New York, è dal 1934 che non ha un tavolo vuoto, e da qualche tempo nel sottoscala, per darsi un tono, l'hotel aveva aperto anche il Chelsea Room, dove sciamavano ragazzini che però neppure sapevano quali fantasmi avevano popolato quel tempio. Ma è la ristrutturazione che è diventata insostenibile: come una cattedrale di cemento dell'Europa dell'Est, il Chelsea muore schiacciato dal peso della sua grandezza, dai costi della sua manutenzione. E pensare che qui si fermarono Mark Twain e Thomas Wolfe - il primo, quello di "October Fair", il maestro dei beat: quello del "Falò delle Vanità" lo bazzicò però da gran cronista. E pensare che qui scendeva la grande Sarah Bernhard - oltre, s'intende, a Stormeé de Larvieré, la prima drag queen.

Ci sono passati tutti, al Chelsea Hotel. Qui Arthur C. Clarke scrisse "2001 Odissea nello spazio". E qui Andy Warhol ambientò "Chelsea Girl": con Nico e gli altri suoi ragazzi. Qui Joni Mitchell scrisse quella "Chelsea Morning" che fece innamorare Bill e Hillary Clinton: che Chelsea chiamarono appunto la loro signorina, poveretta quando l'ha scoperto. E giù giù: da Dee Dee Ramone dei Ramones ai giorni nostri. Da Patti Smith ad Abel Ferrara.

Quanti nomi? Sulle "Leggende del Chelsea Hotel", Ed Hamilton ha scritto un libro pieno di tanti aneddoti quante pulci potevano contenere le sue stanze: tantissime. E il Chelsea Hotel rivive anche in uno degli ultimi grandi romanzi scritti sulla Grande Mela dopo l'11 settembre: quel "Netherland" di Joseph O' Neill che il "New York Times" ha paragonato addirittura al Grande Gatsby.

Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel, cantava Leonard Cohen. Dice l'ultima leggenda pulciosa che la canzone fu ispirata da un giochino, diciamo così, che gli fece Janis Joplin. E che la stanza numero 100, quella dove Sid Vicious dei Sex Pistols uccise Nancy Spungen, fu cancellata invece dai proprietari, stanchi del casino che ci facevano i punk ogni volta che chiedevano di fermarsi. E adesso?

La città che non dorme mai è il teatro di alberghi che sono una favola. Il Plaza che sorveglia Central Park, per esempio. O il Waldorf Astoria che è "la casa dei presidenti" quando vengono a New York. Ma questa era tutta un'altra storia. "I remember you well in the Chelsea Hotel / That's all, I don't even think of you that often". Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel, questo è tutto: in fondo, non ti penso neppure così spesso.

Leonard Norman Cohen (Montreal, 21 settembre 1934) è un cantautore, poeta e compositore canadese.Leonard Cohen è nato a Montreal nel 1934 da una famiglia ebraica immigrata nel Canada. Suo padre era di origini polacche e sua madre di origini lituane.

Fin dai tempi dell'università a Montreal, Leonard Cohen si dedica alla poesia. La sua prima raccolta vede la luce nel 1956, con il titolo di Let Us Compare Mythologies. In questo periodo si incontra con alcuni amici poeti, in un congresso informale di lettura e critica dei rispettivi componimenti. Un primo album di reading, contenente otto poesie recitate da Cohen, esce nel 1957 con il titolo di Six Montreal Poets. Nel 1961 viene pubblicata la raccolta di poesie The Spice-Box of Earth.

Trasferitosi a Hydra, un'isoletta della Grecia, famoso rifugio di artisti d'ogni genere, pubblica nei primi anni sessanta raccolte di poesie (tra cui Flowers for Hitler, fiori per Hitler) e due romanzi, Il gioco preferito (1963) e Beautiful Losers (1966). Nel primo di essi alcune righe denotano l'importanza data alla parola e nello stesso tempo la difficoltà sovente di comprenderla:

« Vorrei dire tutto ciò che c'è da dire in una sola parola. Odio quanto possa succedere tra l'inizio e la fine di una frase »


La sua canzone Suzanne (del 1966) ne decreta il successo universale a livello musicale. Alla musica si avvicina grazie alla cantante e amica Judy Collins che per prima ne interpreta alcune canzoni e lo esorta a tentare la fortuna con la musica.

Altri brani celebri di Cohen sono: Famous Blue Raincoat, The Partisan, So Long Marianne[1], Chelsea Hotel #2, Sisters of Mercy,Allelujah,cantata da Bob Dylan
Autore di testi toccanti, arrangiatore geniale e cantante dalla "voce di rasoio arrugginito" ("Sono nato così, non avevo scelta, sono nato con il dono di una voce d'oro..." canta in Tower of Songs), rivoluziona la figura del cantautore avvicinandolo al poeta

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