SCRITTI DI BARBARA SPINELLI
Ho letto l’articolo di Isabella Bossi Fedrigotti pubblicato lunedì sul Corriere. Concordo con Lei, il termine “femminicidio” suona cacofonico , e molti a sentirlo storcono il naso, perché rimanda all’idea sprezzante della latina “femina”, l’animale di sesso femminile.
Tuttavia mi sento in dovere di rassicurare l’autrice ed i lettori: il termine femminicidio non nasce per caso, né perché mediaticamente d’impatto, e tantomeno per ansia di precisione.
Oggi sembra quasi una banalità ripetere i dati dell’OMS: la prima causa di uccisione nel Mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio (da parte di persone conosciute). Negli anni Novanta il dato non era noto, e quando alcune criminologhe femministe verificarono questa triste realtà, decisero di “nominarla”. Fu una scelta politica: la categoria criminologica del femmicidio introduceva un’ottica di genere nello studio di crimini “neutri” e consentiva di rendere visibile il fenomeno, spiegarlo, potenziare l’efficacia delle risposte punitive.
Dietro questa parola c’è una storia lunga più di venti anni, una storia in cui le protagoniste sono le donne, e ne escono vincitrici.
Varrebbe la pena conoscere questa storia prima di decidere se usare o no il termine femminicidio. Anzi, -questo si per desiderio di precisione - i concetti di femmicidio e femminicidio. Ero una giovane studentessa di giurisprudenza quando ho sentito per la prima volta questo termine, nel 2006, da un’avvocata messicana, e nutrivo le stesse perplessità.
Che bisogno c’era di un nome nuovo? Sempre di omicidi si trattava.
Purtroppo non avevo fonti di informazione italiane su questo strano neologismo, che già alcune associazioni di donne iniziavano a usare (UDI, Donne in nero, Casa delle donne per non subire violenza di Bologna) così decisi di andare a fondo, documentarmi, capire. Rimasi così soggiogata dalla storia celata dietro questa parola, che decisi di raccontarla in un libro , perché tutti potessero conoscere la tenacia delle donne che l’avevano scritta ed i risultati che avevano ottenuto.
Il termine “femicide” (in italiano “femmicidio” o “femicidio”) nacque per indicare gli omicidi della donna “in quanto donna”, ovvero gli omicidi basati sul genere, ovvero la maggior parte degli omicidi di donne e bambine. Non stiamo parlando soltanto degli omicidi di donne commessi da parte di partner o ex partner, stiamo parlando anche delle ragazze uccise dai padri perché rifiutano il matrimonio che viene loro imposto o il controllo ossessivo sulle loro vite, sulle loro scelte sessuali, e stiamo parlando pure delle donne uccise dall’AIDS, contratto dai partner sieropositivi che per anni hanno intrattenuto con loro rapporti non protetti tacendo la propria sieropositività, delle prostitute contagiate di AIDS o ammazzate dai clienti, delle giovani uccise perché lesbiche…Se vogliamo tornare indietro nel tempo, stiamo parlando anche di tutte le donne accusate di stregoneria e bruciate sul rogo.
Che cosa accomuna tutte queste donne? Secondo la criminologa statunitense Diana Russell , il fatto di essere state uccise “in quanto donne”. La loro colpa è stata quella di aver trasgredito al ruolo ideale di donna imposto dalla tradizione (la donna obbediente, brava madre e moglie, la “Madonna”, o la donna sessualmente disponibile, “Eva” la tentatrice), di essersi prese la libertà di decidere cosa fare delle proprie vite, di essersi sottratte al potere e al controllo del proprio padre, partner, compagno, amante ….Per la loro autodeterminazione, sono state punite con la morte.
Chi ha deciso la loro condanna a morte? Certo il singolo uomo che si è incaricato di punirle o controllarle e possederle nel solo modo che gli era possibile, uccidendole, ma anche la società non è esente da colpe. Diana Russell sostiene che
“tutte le società patriarcali hanno usato –e continuano a usare- il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne”.
Questo neologismo è salito alla ribalta delle cronache internazionali grazie al film Bordertown, in cui si racconta dei fatti di Ciudad Juarez, città al confine tra Messico e Stati Uniti, dove dal 1992 più di 4.500 giovani donne sono scomparse e più di 650 stuprate, torturate e poi uccise ed abbandonate ai margini del deserto, il tutto nel disinteresse delle Istituzioni, con complicità tra politica e forze dell’ordine corrotte e criminalità organizzata, ed attraverso la possibilità di insabbiamento delle indagini esacerbata dalla cultura machista dominante e da leggi che, ad esempio, non prevedevano lo stupro coniugale come reato e prevedevano la non punibilità nei confronti dello stupratore che avesse sposato la donna violata.
L’Unione Europea ha riconosciuto che il femminicidio riguarda tutti gli Stati del mondo, non solo quelli latinoamericani, quindi dovremmo abituarci all’idea di convivere con questo termine, anche se può suonare cacofonico.
Ma la storia del femminicidio riguarda noi italiane molto da vicino rispetto ad altre donne europee: il nostro legame con le attiviste messicane è di lunga data e, insieme alle spagnole, siamo state tra le prime ad informare sul percorso delle donne latinoamericane, ad invitarle in Europa per raccontare la loro esperienza e le loro difficoltà.
I numeri del femminicidio in Italia? Se nel 2006 su 181 omicidi di donne 101 erano femmicidi, nel 2010 su 151 omicidi di donne 127 erano femmicidi.
Un dato ci pone in classifica dietro al Messico: se là il 60% delle vittime di femminicidio aveva già denunciato episodi di violenza o di maltrattamento, qui invece una ricerca condotta da Baldry ha evidenziato che più del 70% delle vittime di femminicidio era già nota per avere contattato le forze dell’ordine, ovvero per aver denunciato, o per aver esposto la propria situazione ai servizi sociali.
Un dato che ci accomuna agli altri Paesi europei: le ricerche criminologiche dimostrano che su 10 femmicidi, 7/8 sono in media preceduta da altre forme di violenza nelle relazioni di intimità....
Nessun commento:
Posta un commento