di Maria Serritiello
Ciò
che disturba di “Mulignane”, il pezzo portato in scena da Gea Martire, al
Teatro del Giullare di Salerno, il sette e l’otto dicembre scorso, è che la
presa di coscienza della protagonista sia dovuta passare attraverso la
brutalizzazione del proprio corpo.
Non
avere un nome, in una storia, è già indice di nullità e nel caso della
protagonista di “Mulignane”, è una certezza. La donna in questione è brutta ma
proprio brutta assai, occhiali spessi, nessuna grazia, vestiti senza gusto,
piena di malattie psicosomatiche e con l’aggravante che manca di un uomo al suo
fianco. Ha un lavoro che non la soddisfa, per via della prepotenza e la non
curanza del proprietario dell’agenzia pubblicitaria e di Carmela, l’altra
impiegata. E’andata a vivere da sola in una casa per proprio conto, ma sua
madre, avendo le chiavi, piomba e fiuta ogni traccia che potrebbe rivelarle la
presenza di una relazione. Ha anche due amiche, Anna Maria e Olga, accasate,
con le quali si vede ogni giovedì, quando si liberano dai mariti e con le quali
parla, ovvero loro parlano di cucina, di figli, di faccende domestiche e di
sesso, argomenti, i primi di nessun interesse per lei, dell’ultimo senza nessun
riguardo per il suo stato di “zitella”, ma tant’è almeno il giovedì pratica uno
straccio di vita sociale. Tutto è meglio di niente, perfino le “mulignane”,
quei segni lividi sul suo corpo, comprensivi di altri nell’anima. Quando appare nella sua vita
Peppino, il commesso dei pacchi, tutto sembra capovolgersi, anche lei ha un
uomo che però si rivela, di una volgarità estrema, dal sesso spinto, sadomaso e
feticista, ma la sua esistenza
finalmente viene ad essere omologata a quella degli altri. I loro
incontri sono una sequenza di vessazioni alle quali è costretta a sottostare,
tra lacrime e insostenibili dolori, e per esaltare le voglie e l’eccitazione
del mostro è costretta a dire “ Si, vatteme, famme male”. Capita però, che
l’esercizio alla sofferenza, fortifica e i ruoli si ribaltano e le “mulignane” diventano
ruoti di parmigiane bollenti per la vendetta finale, diversa dal solito che è
un piatto servito freddo.
Gea
Martire è l’assoluta, l’immensa interprete del monologo scritto da Francesca
Prisco, per la regia di Antonio Capuano. La donna da lei caratterizzata è
l’ennesima sua prova d’artista, sia per come l’interpreta e sia per come la presenta:
occhiali fondo di bottiglia, calati sugli occhi, maglietta grigia su di una
gonna longuette avion e capelli sciattamente tirati indietro, ritratto della
perfetta zitella. Il monologo ha inizio dal giorno del suo compleanno, uno in
più per sommarlo a tutti i suoi fallimenti ma soprattutto alla maledizione di
non avere un uomo accanto, secondo cui la discriminazione di essere donna è
doppia. Considerata poco più di un reietto, a cominciare dalle stesse del suo
genere, per finire alla madre, si consegna vittima immolata, non salvaguardando
nessuna parte di sé. Man mano che il racconto va avanti, sul viso e sul corpo
di Gea, si attaccano con crudezza gli infelici stati d’animo della povera donna.
La sua recitazione è così vera, da non sembrare tale, quando in cerca d’amore,
quello romantico, non trova altro che sesso brutale. La sottomissione alle voglie estreme dello zotico, prepotente e
volgare Peppino seguono la logica della
poca considerazione di se stessa, che
mai nessuna una donna dovrebbe avere. Il prezzo da pagare per una passeggiata o
per un incontro furtivo è alto e Gea, viso e corpo, ce lo mostra, mimando
drammaticamente il sesso rude, sbrigativo e crudele, subito dall’infame. E così,
come se il rozzo grossolano fosse in palcoscenico, per cui la voglia di
massacrarlo è prepotente, la brutalizza, la prende da dietro, l’incatena, la
picchia selvaggiamente e la lascia sfinita. In scena, Gea Martire, sul puf
circolare, si contorce dal dolore, si leva a stento, le membra tutte un livido,
una sequenza quella dello stupro di un
realismo così crudo, da scardinare l’animo di chi assiste. Un’interpretazione
stupenda ed amara, dalla quale ogni donna non può che uscirne sconfitta,
oltraggiata e svilita. Lo stato di soggezione in cui è caduta, nausea, prende
alla gola e rende furibondi e se questa è la provocazione dell’autrice,
tematica per altro non originale, è riuscita in pieno. I cambi di voce per
rappresentare lui e i balbettamenti per l’insicurezza di lei sono la conferma della bravura dell’attrice
molto apprezzata dal pubblico del Giullare. Nella prima parte del testo, ci
sono battute anche divertenti ma successivamente le risate si fanno amare e se
c’è qualche risolino ammiccante in sala, non è certo dovuto a donne, l’inserimento del dialetto di tanto in tanto, poi, rendono efficace ed agevole il monologo. La
gestualità, la mimica facciale e l’espressività del corpo, splendida la
trasformazione finale di Gea alla “Gilda”, nell’abitino rosso avvitato e chioma
leonina, sono uno splendido corollario alla sua interpretazione. La scena arredata semplice è al buio, con un
grosso puf rosa al centro e un
appendiabito a vista, dietro il quale Gea si veste e si spoglia nei veloci
cambi d’abito.
Eccezionale,
Gea, come sempre, come ogni volta nel rappresentare l’universo femminile.
Maria
Serritiello
www.lapilli.eu
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