Fonte:www.lapilli.eu
di Maria Serritiello
Non ho conosciuto
Nicola Tota e me ne dispiace, perché ciò che ho scorto nei suoi quadri, tenuti
esposti dal 3 /10 maggio scorso, presso il Museo dell’Architettura Contemporanea,
di Via Porta Elina, è una bell’anima. 27 i quadri, tra i tantissimi prodotti,
per comporre la significativa retrospettiva del ricordo, a dieci anni esatti
dalla sua scomparsa. Un affettuoso ossequio della famiglia, oltre che un atto
dovuto, per dare memoria alla sua opera, prodotta in prevalenza, nel e per il territorio
salernitano, ma apprezzato oltremodo anche all’estero.
Sulla brochure
dell’evento si legge: “Suonavo per dimenticare la fame, suonavo per non morire,
ma la mia grande passione era e restava la pittura”, parole, che si riferiscono
alla sofferenza patita nella prigionia della guerra. Il giovane Nicola,
infatti, nato il 9 luglio del 1923, a Lacedonia, in provincia di Avellino, si
trovò, a meno di vent’anni, sbattuto in guerra come paracadutista sabotatore. Gli
inglesi, prima di Natale del ’44, lo catturarono per rinchiuderlo nel campo di
concentramento di Chiaravalle. Da lì fu deportato in Africa, precisamente ad
Algeri. Che cosa inventare per non morire di fame, gli fu possibile, grazie alla
musica, altra sua passione e così si trovò a suonare, il sax ed il clarinetto
nelle serate per i soldati britannici. Lo spettro della fame si attutì ma non
si allontanò del tutto, in quanto, tornato in Italia, fu di nuovo rinchiuso nei
campi di concentramento, questa volta a Taranto e considerato dai soldati
inglesi, lui, solo un patriota, un ex fascista, per cui non si decidevano a
lasciarlo andare. Quando finalmente tutto finì, tornato libero, a casa riprese
l’antica passione della pittura, ma essendo il dopoguerra non adatto a vivere di
sola arte, si dedicò all’insegnamento. Fu, così, maestro nelle carceri di
Salerno, allora situate nella parte alta della vecchia città e per trentadue
anni, seguendo le strade tortuose, strette, appena illuminate dal sole, insegnò
ai detenuti a dipingere, per aiutarli ad oltrepassare, sia il brutto della loro
condizione, che a fornirgli un mezzo di sopravvivenza, una volta usciti fuori. Quando terminava l’insegnamento, dopo una
breve pausa, si ritirava nel suo studio, allocato in Vicolo Lavinia e si
perdeva tra macchie di colori, particolari di un tutto, paesaggi, volti,
immagini, fissate, per le sue tele intonse ma pronte, di lì a poco ad avere
anch’esse una loro storia. Ecco, una vita semplice di un uomo buono, di marito
affettuoso, di padre amoroso, per Enzo ed Anna Maria, prima e tenero nonno per
i sui nipotini, dopo. Dice di lui Ermanno Guerra, Assessore alla Cultura del
Comune di Salerno, tra l’altro, per un periodo, suo allievo: “…. Quella breve e
bella vicenda mi ha offerto l’immagine di un artista pienamente nel ruolo,
compiaciuto a tratti, poi autoironico, ma sempre generoso nel dispensare
consigli e pronto a parlare con gioia e passione di pittura…”
La sua pittura, dal
tratto a spatola, a pennellare colori, sì da farci entrare nell’anima l’energia
del suo segno pittorico. Masse cromatiche che invadono le sue tele e Salerno
gli dà la giusta qualità di cui ha bisogno, l’azzurro delle marine, il giallo
spento di vecchi palazzi, il bianco schiumato di onde tempestose, il rosso
ruggine, invariabilmente di fiori o di balconi, mentre il verde per le montagne
a guardia, il nero per i vicoli bui, cosicché che tra gli orni colori,
irrompono maestosi particolari di archi e di colonne, di scorci e di paesaggi,
la città e la costiera. Quella sua pittura che varca i confini per essere
esposta all’Hermitage Museum di San Pietroburgo, al Museo di Mosca,
all’Accademia di Arti Straniere di Londra, di cui egli stesso fu membro ad honorem. Il dipinto
“Italia
anni ‘70”, esposto a San Pietroburgo, si
conquistò, tra le altre, la recensione
di Luigi Kalby, docente universitario di Storia dell’Arte, nella quale si evidenziò
l’impegno civile dell’opera ma anche la disincantata adesione.
I quadri, situati in
mostra, sono visibilmente il riflesso della sua anima ad iniziare dai passi
innamorati intorno alla città, “Le Botteghelle”, “I Mercati”,” “Verso Trotula
de Ruggiero”, L’Addolorata”, “la Fontana di Largo Campo”, citandone alcuni, per
continuare con gli affetti familiari, come il viso bellissimo della nipotina
Maria, dai perfetti lineamenti e dagli occhi
scurissimi, colore della notte e delle bomboniere di lei, per la sua prima
comunione, piccole gouache di una bellezza e semplicità unica. Anche la borsa
di Angela Guerra, sua nuora, di grezzo canapone, come si portava negli anni
’70, fu dipinta dal Maestro, su insistente sua richiesta, ora è incorniciata e fa
bella mostra tra le opere esposte. Pittura familiare è anche la stupenda
ballerina, impressa sulla locandina degli inviti ma che si mostra bellissima
all’interno dell’esposizione. La fanciulla nel suo tutù d’impalpabile voile, in
posa, eppure se ne scorgono visivi i volteggi, è sua figlia Anna Maria, appena
sedicenne, di ritorno dal saggio. E’ questo il dipinto che più ha amato, era il
1969 e vi lavorò per molte ore nell’intento di cogliere la lievità della danza
e della ballerina.
Nel visitare la mostra,
insospettatamente, (n.d.r) scorgo nel tratto della sua pittura un che di familiare,
come se avessi già visto i quadri del Maestro, eppure non ne avevo mai ammirata
la bellezza. Mi sono incuriosita e vengo a sapere che Nicola Tota è stato l’allievo
prediletto di Salvatore D’Acunto, il pittore salernitano, coetaneo di Alfonso
Gatto, innamorato della pittura, della sua città e padre della mia amica Anna.
Ecco dove avevo scorto i tratti o per lo meno la tecnica usata, lavorare a
spatola per dipingere, mi aveva confidato sua figlia, mentre a casa sua
ammiravo le tele, era stata una sua caratteristica precipua. L’allievo Nicola, attento
e giovane talento, ne aveva assorbito intatta la pratica, trasferendola con precisa
scrupolosità nelle sue opere. E’ stato significativo conoscere chi ha guidato
la sua mano e ha perpetrato l’insegnamento con la propria genialità.
Nicola Tota ha continuato
a dipingere fino all’ 8 gennaio del 2004, la pittura, la sua fedele compagna di
tutta una vita, non l’ha mai abbandonato, anzi gli sopravvive e ce ne rimanda
intatta la bella immagine.
Maria Serritiello
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