di Maria Serritiello
Non
passava giorno del 5 aprile di ogni anno, che mio padre non andasse a
piedi a San Vincenzo di Dragonea. Era un rito, come quello della prima
messa al mattino e del cimitero quotidianamente, a cui non si è mai sottratto fino all'ultimo dei suoi giorni. S'incamminava al mattino presto e a passo sostenuto, in
compagnia dei soli suoi pensieri, si avviava verso il santuario vincenziano, a nessuno di noi veniva in mente
di seguirlo. Prima di proseguire fino alla meta religiosa si fermava al cimitero di Vietri sul Mare per salutare i suoi nonni, là sepolti.
Un tempo abitavamo, dove lui era nato e trascorsa la vita giovanile, ma anche parte di quella adulta, prima che se ne fosse andato "emigrato" come lui sempre diceva, a Firenze, per 35 lunghissimi anni. Abitavamo là, nel palazzo
di proprietà, che portava il cognome di famiglia, perché suo padre ed i
fratelli di lui, avevano inteso costruirselo per i cinque nuclei che in seguito
si erano formati. Ricordo ancora il dolore stampato sul suo viso, quando il palazzo fu abbattuto necessariamente una ventina d'anni fa. Scrutò tutta l'operazione da una postazione poco distante, quasi di nascosto, come a seguire un rito funebre o forse solo per dire addio all' ultima testimonianza del suo passato. A dire il vero anch'io nel passare di là, ancora oggi, non guardo mai il nuovo palazzo, perché voglio ricordare il bel portone di pesante legno verde che la sera si chiudeva con una grossa chiave.
Così, quando si sposò, mio padre non s’allontanò di molto da quel luogo. Infatti la casa nuova era appena
di fronte alla vecchia, tanto che dalla mia finestra potevo salutare Nonna Maria, la madre
di mio padre, guardarla mentre stendeva
i panni, quando girava la conserva nel piatto, esposta al sole della loggia e
quando si asciugava all'aria i lunghi capelli striati di nero, che una volta asciutti si annodava dietro la nuca. Ricordo che alla loggia non mancavano mai i “piennele” di
pomodori, di sorbe e di meloni bianchi, da mangiarsi rigorosamente a Natale e alle piante ornamentali, oltre ai nastrini bianchi e verdi, a quelle foglie
larghe, all’aloe, ad altre che sembravano asparagi, c’erano sempre le piantine di prezzemolo, di basilico
e di menta per condire le zucchine alla
scapece e “mbuttunà” la milza per San Matteo. Quando il cibo per il mezzogiorno
e la sera era pronto, alla nonna bastava affacciarsi, per chiamare su, i cinque figli dall' officina sottostante,
che si allungava sotto il terrazzo con un bel giardino, nel quale tra fiori c’erano
anche le galline e dove lavoravano nel proprio: zio Alberto, Zio Peppe, zio Mario e zio
Antonio. Sento ancora il rumore della macchina da cucire, una vecchia Singer,
che conservo tuttora, solo per il ricordo, non sono capace di nessuna manualità. La nonna la utilizzava per i numerosi rammendi alle tute blu dei
5 figli e per ogni necessità della casa. Il canto ripetuto del gallo e la forgia accesa del nonno Francesco, con il battito del martello sull'incudine, svegliava me la mattina ed avviava la vita
laboriosa della famiglia. Zia Rosaria, una delle due sorelle di mio padre, l’altra,
Modesta, si era sposata ed aveva seguito il marito a San Donaci in Puglia, da
piccola la chiamavo, “zia chiochiara”, mi portava sempre con sé a passeggio, a
mare, a fare le prove per le recite scolastiche, a cinema e a vedere spettacoli, in sostituzione di mia madre, perché intanto era nato, dopo nove anni, il mio fratellino Antonio. Uno di questi mi è restato
impresso “La cantata dei pastori” rappresentata al teatro Augusteo. Quella sera
pioveva a dirotto e la zia aveva indossato per la prima volta un graziosissimo
impermeabile di colore rosso granata, che rivoltandosi diventava azzurro scuro, completava il tutto un vezzoso cappellino a falde larghe. Io ero intabarrata in una lunga mantella beige con ai
piedi galoche di gomma, lucide e nere, alte fino al ginocchio. Mia madre me le
faceva calzare con degli spessi calzettoni di pura lana che “zi Ndunetta, la vecchina che abitava accanto a noi, chiamata così per rispetto della sua anzianità, mi
confezionava, sferruzzando interi pomeriggi, seduta vicino al calore del
braciere. Camminavamo spedite, io e la zia, all'uscita del teatro, ripetendoci le battute di Razzullo e Sarchiapone che ci avevano fatte più ridere e sebbene la pioggia su di noi non aveva dove appoggiarsi, tanto eravamo coperte avanzavamo il passo anche per la scarsa illuminazione della strada, quando un giovanotto maldestramente e in tutta fretta, per l'incalzare del mal tempo, tentò di approcciare la zia, allora si usava fare la corte, si aspettava a lungo l’occasione propizia, lei era proprio una bella ragazza, piccola e aggraziata, tenuta gelosissima dai fratelli. Con un fil di voce ed aria imbarazzatissima, disse “Vi posso
accompagnare? ”. Scoppiammo a ridere senza ritegno, ed ancora oggi ricordando, ridiamo a crepapelle, il poveraccio che voleva fare da cavaliere per noi, era
senza ombrello…
Maria
Serritiello
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