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martedì 9 luglio 2024

“Il vicolo della neve” il passaporto del gusto della città di Salerno


 Fonte:www.lapilli.eu

di Maria Serritiello

Il 25 maggio, a Salerno, ha riaperto l’antico ristorante “Il Vicolo della Neve”, sito nel cuore del centro storico e chiuso nell’agosto del 2021 per raggiunta età del gestore. La tradizione della vecchia cucina salernitana continua, oggi, nei giovani Fiorenzo Benvenuto, Gerardo Ferrari e Marco Laudato, affiancati da chi la storia di questo luogo ben la conosce: Nonna Maria Caputo.  Anni addietro, per l’esattezza nel 2012 scrissi una pagina per questo mitico luogo, tanto caro al poeta Salernitano Alfonso Gatto, che ripropongo all’attenzione di quanti hanno amato ed amano il gusto identitario della città e per i giovani che non ne conoscono l’origine


Quel sapore buono della città al “Vicolo della Neve”

Ad una cosa Salerno, non ha mai rinunciato, quando negli anni ’50 e ’60, l’inurbazione della provincia ha confusamente trasferito nella città altre radici ed altre usanze, a riconoscersi interamente nella tradizione della cucina del “Vicolo della Neve”. Somigliante ad un’antica taverna, il posto emana un inconfondibile fascino, quando abbandonate gli stretti budelli, s’invicola, nascondendosi al via vai della gente. Un tempo l’ombra fresca, e riottosa che stagnava nella discosta viuzza, permise alla neve, scesa dai monti, di accumularsi nelle cantine sottoposte alla strada, di essere lavorata e trasformata in candide bacchette, vendute, poi, per rinfreschi e festini, senza pretese dell’epoca. L’attività colorata di bianco, svolta familiarmente per lungo tempo e cancellata impietosamente dall’utile modernità, giustifica il nome che il vicolo porta e vanta come orgoglioso trofeo. Di rado il sole si mostra nella viuzza, solo gli ultimi piani del palazzo, a cui gli anni non si contano più, sono raggiunti da luminosi raggi, che mantengono vive le piante sporte ai balconi e questi schiacciati alla facciata, sembrano quasi disegnati. Di giorno, il luogo si perde negli odori delle case montate strette, si confonde nelle prolifiche attività artigiane, si distrae col passo frettoloso e nessuno vi bada, ma la sera, la sera è tutta un’altra cosa. Finita l’attesa, il posto, quieto come un vecchio focolare s’accende e accogliente ricovera all’interno. La porta ospitale si apre rigorosamente alle 20, per rinchiudersi non prima delle tre, quando ormai la città, da un pezzo, si è distesa nel sonno. All’ingresso a farsi avanti più che “lui”, Matteo Bonavita, da quasi 50 anni, il successore ultimo di tre generazioni avvicendatesi, è l’odore intenso del basilico, sparso abbondante sulla pizza e mescolato a quello fragrante della menta, servito per l’imbottitura della milza ed anche a quello non separato dell’origano e dell’aglio, saporoso sulle alici marinate. In bocca, nell’attesa, che dura in tutto una decina di minuti, già si pregusta il sapore morbido del baccalà, cucinato a zuppa e quello sfritto della ciambotta, un misto di melenzane, peperoni e patate, tagliate a tocchetti e servito nel rame dell’affumicata “tiella”. E poi, tripudio del gusto, da assaggiare ci sono i peperoni imbottiti, le zucchine alla scapece, i broccoli “scuppetiati” e le melanzane sia spaccate che alla parmigiana, per il salato ma anche l’irrinunciabile pastiera e l’inconfondibile scazzetta, per il dolce, piatti che solo qui hanno questo sapore. Tempo addietro, due distinti vecchietti: Armando e Giovanni, un tutt’uno con i loro strumenti, mandolino e chitarra, suonavano melodie perché la sensorialità avvolgente del luogo fosse più completa. Che cosa ha fatto speciale il posto ce lo spiega lo stesso Matteo, due occhi con dentro tanto mare, quello limpido e tenue delle giornate primaverili, con guizzi chiari come i bianchetti ed il sorriso schiacciato nel volto, come un pomodoro allegro sulla pizza: “Il segreto” dice “sta nella scelta dei prodotti, tutti di gran qualità.” Ai mercati generali, al mattino verso le 11, è lui stesso a fare la spesa, come fa da sempre, incurante del tempo che passa, va spedito tra i banchi a scegliere dalle sporte, con consumata esperienza, ciò che verrà trasferito dal caos colorato e crudo del mercato, all’amalgama saporosa della cucina-capolavoro. Al Vicolo della Neve, la vecchia Salerno resiste e si raffigura nella distesa d’aglio appesa, nei vani divisi e accarezzati dagli archi a scuri mattoni, nelle travi di massiccio legno a sostenere il soffitto, nelle suppellettili semplici ed essenziali. Un antro odoroso, oscuro, protettivo che faceva scrivere silenzioso Alfonso Gatto e dipingere con dirompente sensualità Clemente Tafuri. Sull’arco nero fumo, surriscaldato dalle fiamme rossicce del forno a legna, risucchiante come la vorace bocca dell’inferno, proprio su quell’arco che precede la cucina, il Maestro ha lasciato il tratto significativo dell’età dell’uomo. Grottesco, lascivo, il satiro vecchio spia la gioventù dai colori sfumati e si erge sugli altri dipinti che tappezzano l’ambiente, testimonianza dei molti che sono passati. Enrico Caruso, tra gli illustri, per esempio, non rinunciò a mangiare qui e neanche Giovanni Amendola e nemmeno i tanti nomi famosi, dello spettacolo, della letteratura, dell’arte e della politica, un elenco interminabile, tutti di passaggio nella città e presenti al Vicolo della Neve. Senza avvertire il peso degli anni, di sera in sera, la storica locanda si anima ed apre i battenti per mantenere intatta ai Salernitani la tradizione fragrante e golosa del cibo, quella stessa tradizione che ha trasformato il posto in un caldo focolare per i vecchi di un tempo, per i giovani attuali e per tutti coloro che sono di passaggio in questa splendida città.

Maria Serritiello

www.lapilli.eu


Il vicolo della neve

               di Alfonso Gatto


E' nella notte d'inverno
il pallido azzurro fornaio
disegnato di vene,
la luna a mezzo febbraio,
quel parlare di cene.
Il vicolo aveva la neve
del dolce nome granito,
un uomo triste che beve
il suo vino appassito.
Il vicolo aveva il balcone
della puttana smargiassa
e quell'odore di nassa
di polpo bollito e limone.
Il vicolo aveva l'inverno
il canto della canaria
i numeri rossi del terno
l'ultimo palpito d'aria
di fresca cantina, d'arancio
che torna - oh se torna! - nel grano
fiorito della pastiera.
Il vicolo aveva nel gancio
l'insegna contrabbandiera
del c'era una volta il lontano
racconto del tempo che fu.
Straniero, se passi a Salerno
in una notte d'inverno
di luna a mezzo febbraio,
se vedi il bianco fornaio
che batte le mani sul tondo
di quella faccia cresciuta,
ascolta venire dal fondo
degli anni la voce perduta.
L'odore di menta t'invita,
la tavola bianca, la stanza
confusa dall'abbondanza.
In quell'odore di forno
per qualche sera la vita
si scalda con le sue mani
e quegli accordi lontani
del tempo che fu.






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