Fonte:www.lapilli.eu
di Maria Serritiello
Il 25 maggio, a Salerno, ha riaperto l’antico ristorante “Il Vicolo della Neve”, sito nel cuore del centro storico e chiuso nell’agosto del 2021 per raggiunta età del gestore. La tradizione della vecchia cucina salernitana continua, oggi, nei giovani Fiorenzo Benvenuto, Gerardo Ferrari e Marco Laudato, affiancati da chi la storia di questo luogo ben la conosce: Nonna Maria Caputo. Anni addietro, per l’esattezza nel 2012 scrissi una pagina per questo mitico luogo, tanto caro al poeta Salernitano Alfonso Gatto, che ripropongo all’attenzione di quanti hanno amato ed amano il gusto identitario della città e per i giovani che non ne conoscono l’origine
Quel sapore buono della
città al “Vicolo della Neve”
Ad una cosa Salerno, non
ha mai rinunciato, quando negli anni ’50 e ’60, l’inurbazione della provincia
ha confusamente trasferito nella città altre radici ed altre usanze, a
riconoscersi interamente nella tradizione della cucina del “Vicolo della Neve”.
Somigliante ad un’antica taverna, il posto emana un inconfondibile fascino,
quando abbandonate gli stretti budelli, s’invicola, nascondendosi al via vai
della gente. Un tempo l’ombra fresca, e riottosa che stagnava nella discosta
viuzza, permise alla neve, scesa dai monti, di accumularsi nelle cantine
sottoposte alla strada, di essere lavorata e trasformata in candide bacchette,
vendute, poi, per rinfreschi e festini, senza pretese dell’epoca. L’attività
colorata di bianco, svolta familiarmente per lungo tempo e cancellata
impietosamente dall’utile modernità, giustifica il nome che il vicolo porta e
vanta come orgoglioso trofeo. Di rado il sole si mostra nella viuzza, solo gli
ultimi piani del palazzo, a cui gli anni non si contano più, sono raggiunti da
luminosi raggi, che mantengono vive le piante sporte ai balconi e questi
schiacciati alla facciata, sembrano quasi disegnati. Di giorno, il luogo si
perde negli odori delle case montate strette, si confonde nelle prolifiche
attività artigiane, si distrae col passo frettoloso e nessuno vi bada, ma la
sera, la sera è tutta un’altra cosa. Finita l’attesa, il posto, quieto come un
vecchio focolare s’accende e accogliente ricovera all’interno. La porta
ospitale si apre rigorosamente alle 20, per rinchiudersi non prima delle tre,
quando ormai la città, da un pezzo, si è distesa nel sonno. All’ingresso a
farsi avanti più che “lui”, Matteo Bonavita, da quasi 50 anni, il successore
ultimo di tre generazioni avvicendatesi, è l’odore intenso del basilico, sparso
abbondante sulla pizza e mescolato a quello fragrante della menta, servito per
l’imbottitura della milza ed anche a quello non separato dell’origano e
dell’aglio, saporoso sulle alici marinate. In bocca, nell’attesa, che dura in
tutto una decina di minuti, già si pregusta il sapore morbido del baccalà,
cucinato a zuppa e quello sfritto della ciambotta, un misto di melenzane,
peperoni e patate, tagliate a tocchetti e servito nel rame dell’affumicata
“tiella”. E poi, tripudio del gusto, da assaggiare ci sono i peperoni
imbottiti, le zucchine alla scapece, i broccoli “scuppetiati” e le melanzane
sia spaccate che alla parmigiana, per il salato ma anche l’irrinunciabile
pastiera e l’inconfondibile scazzetta, per il dolce, piatti che solo qui hanno
questo sapore. Tempo addietro, due distinti vecchietti: Armando e Giovanni, un
tutt’uno con i loro strumenti, mandolino e chitarra, suonavano melodie perché
la sensorialità avvolgente del luogo fosse più completa. Che cosa ha fatto
speciale il posto ce lo spiega lo stesso Matteo, due occhi con dentro tanto
mare, quello limpido e tenue delle giornate primaverili, con guizzi chiari come
i bianchetti ed il sorriso schiacciato nel volto, come un pomodoro allegro
sulla pizza: “Il segreto” dice “sta nella scelta dei prodotti, tutti di gran
qualità.” Ai mercati generali, al mattino verso le 11, è lui stesso a fare la
spesa, come fa da sempre, incurante del tempo che passa, va spedito tra i
banchi a scegliere dalle sporte, con consumata esperienza, ciò che verrà
trasferito dal caos colorato e crudo del mercato, all’amalgama saporosa della
cucina-capolavoro. Al Vicolo della Neve, la vecchia Salerno resiste e si
raffigura nella distesa d’aglio appesa, nei vani divisi e accarezzati dagli
archi a scuri mattoni, nelle travi di massiccio legno a sostenere il soffitto,
nelle suppellettili semplici ed essenziali. Un antro odoroso, oscuro,
protettivo che faceva scrivere silenzioso Alfonso Gatto e dipingere con
dirompente sensualità Clemente Tafuri. Sull’arco nero fumo, surriscaldato dalle
fiamme rossicce del forno a legna, risucchiante come la vorace bocca
dell’inferno, proprio su quell’arco che precede la cucina, il Maestro ha
lasciato il tratto significativo dell’età dell’uomo. Grottesco, lascivo, il
satiro vecchio spia la gioventù dai colori sfumati e si erge sugli altri
dipinti che tappezzano l’ambiente, testimonianza dei molti che sono passati.
Enrico Caruso, tra gli illustri, per esempio, non rinunciò a mangiare qui e
neanche Giovanni Amendola e nemmeno i tanti nomi famosi, dello spettacolo, della
letteratura, dell’arte e della politica, un elenco interminabile, tutti di
passaggio nella città e presenti al Vicolo della Neve. Senza avvertire il peso
degli anni, di sera in sera, la storica locanda si anima ed apre i battenti per
mantenere intatta ai Salernitani la tradizione fragrante e golosa del cibo,
quella stessa tradizione che ha trasformato il posto in un caldo focolare per i
vecchi di un tempo, per i giovani attuali e per tutti coloro che sono di
passaggio in questa splendida città.
Maria Serritiello
www.lapilli.eu
Il vicolo della neve
di Alfonso Gatto
il pallido azzurro fornaio
disegnato di vene,
la luna a mezzo febbraio,
quel parlare di cene.
Il vicolo aveva la neve
del dolce nome granito,
un uomo triste che beve
il suo vino appassito.
Il vicolo aveva il balcone
della puttana smargiassa
e quell'odore di nassa
di polpo bollito e limone.
Il vicolo aveva l'inverno
il canto della canaria
i numeri rossi del terno
l'ultimo palpito d'aria
di fresca cantina, d'arancio
che torna - oh se torna! - nel grano
fiorito della pastiera.
Il vicolo aveva nel gancio
l'insegna contrabbandiera
del c'era una volta il lontano
racconto del tempo che fu.
Straniero, se passi a Salerno
in una notte d'inverno
di luna a mezzo febbraio,
se vedi il bianco fornaio
che batte le mani sul tondo
di quella faccia cresciuta,
ascolta venire dal fondo
degli anni la voce perduta.
L'odore di menta t'invita,
la tavola bianca, la stanza
confusa dall'abbondanza.
In quell'odore di forno
per qualche sera la vita
si scalda con le sue mani
e quegli accordi lontani
del tempo che fu.
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