di Maria Serritiello
Voglio ricordare il grande drammaturgo napoletano con le mie recensioni dei suoi spettacoli. Ogni volta mi sono arricchita e quel suo modo di rappresentarsi toccava le corde più intime del mio sentire.
Un vero dispiacere, ciao Enzo
Presentato al Ghirelli di
Salerno il monologo di Enzo Moscato “Compleanno”
“Ma lo sai di chi è il
compleanno oggi, lo sai? Lo sai di chi è il compleanno oggi?” A ripetere
tristemente più volte la domanda, senza ottenere risposta, è Enzo Moscato, che,
strascicando il passo, schiacciato dal peso di quegli anni, trenta per
l’esattezza e non più attribuibili ad Annibale Ruccello, sono caduti tutti
sulle sue spalle. Lo scenario, ridotto all’essenziale, è efficacemente scuro,
mai il nero del Ghirelli è apparso così opportuno, mentre nel buio, come panni
stesi, spicca un filare di palloncini colorati, segno che il compleanno davvero
ci sarà, almeno come rito che si compie. Al centro della scena una sedia,
ricoperta di voile e di rose, attira l’attenzione, mostrandosi come un vero
“tosello”, di quelli che venivano creati a Pagani dal compianto Franco Tiano,
il principe della tradizione popolare, durante la ricorrenza della Madonna
delle Galline. La sedia, trono vuoto e punto della rappresentazione, evoca
struggente la mancanza di chi, in questo giorno, avrebbe dovuto compiere gli
anni. Enzo Moscato, nel suo intenso pezzo teatrale “Compleanno” unisce allo
stesso filo, la vita e la morte di Annibale Ruccello. Quando il 12 settembre
del 1986, per un mortale incidente, si spense una delle voci più interessanti
ed originali del teatro italiano della seconda metà del XX secolo, Enzo
Moscato, suo fraterno amico e collaboratore artistico, in sua memoria compose
“Compleanno” dove l’assenza di Ruccello diventa presenza e viceversa. Un
monologo che raccoglie, come in un discorso a due, ma è solo Enzo a raccontare,
storie ricordi, episodi, avvenimenti, citazioni, tutto condensato in un
linguaggio colto, tuttavia popolare, pieno di francesismi, di parole arcaiche e
cantilene dimenticate come alcune fra tutte: “nzarvamiente”, “nu mumente, ment
accorde stu strumente” “Sant’ Antuone, Sant’Antuone pigliete o viecchie e
lasseme o nuove”. In scena mestamente Enzo Moscato, torta e candeline accese, è
pronto a festeggiare il compleanno di Annibale Ruccello, perché nel suo cuore
l’amico non se n’è mai andato. In alcuni momenti del monologo Moscato tace, sì
da rafforzare l’assenza e poter cedere la scena alla musica, quella decisa,
mediterranea, dagli arpeggi forti e dalle voci nasali incalzanti dei Gipsy
Kings, una in particolare “ Tu quieres volver” (si desidera tornare) a scandire
il tempo, le emozioni, i desideri, i ricordi. Ed eccoli i personaggi e i
simboli di Ruccello tornare, in una parata surreale: le rose di Jennifer, i
travagli di Anna e poi Ferdinando, Ines, Bolero, Spinoza, i sorci, le matte, le
gatte, Rusinella, i mutanti, i maniaci, gli innesti, le ibride, i pirati, i
priori, gli scrittori, gli inquisitori. Stupenda l’interpretazione di Enzo
Moscato che da trent’anni rappresenta con lo stesso identico calore la vita e
la morte del suo amico ed anche il piccolo incidente in scena (ha preso fuoco
la sua vestaglia mentre si è avvicinato troppo alle candele accese) è segno che
di quell’antico sodalizio non si è mai spenta la fiamma “ Chi muore giovane,
muore una volta sola, gli altri, quelli che restano, muoiono tante volte”, dice
introducendo il lavoro, il giovane attore, personale smilzo, elegante e biondi
i capelli, un Ferdinando ruccelliano per bellezza e giovinezza. “Tu quieres
volver” (si desidera tornare), ossessiva e forte si diffonde in sala a volume
alto, silenziando ogni altra parola. Magari si potesse!
Maria Serritiello
Tratto da www.lapilli.eu
Del 23 febbraio del 2014
Toledo Suite di Enzo
Moscato al Teatro Diana di Salerno
Il mondo emozionale di
parole e canzoni di Enzo Moscato, è
dentro lo spettacolo “Toledo Suite”,
presentato in due serate, 19 e 21 febbraio, al Teatro Diana, sala che si apre
sulla parte nuova e più bella del Lungomare di Salerno. L’attore-chansonnier,
67 anni il prossimo 20 aprile, attraverso brani di Brecht, Duras, Viviani,
Weill, Lou Reed e Taranto, compie un raffinato percorso musicale, aiutato dalla
musica di Pasquale Scialò e da Mimmo Palladino per i disegni
realizzati.
La scena è volutamente
scarna, cupa, senza nessun arredo, se non una sedia al centro, ricoperta da un
drappo rosso, con a lato un leggio, interamente addobbato da tondi e
scenografici pomodorini. Il fondale è nero, intorno un velario su cui
s’imprimono, di volta in volta, scritte ossute di un bianco iridescente.
Circonda il tutto, una serie di lucine colorate, intermittenti, a mo’ di
luminarie, per trasferirci repentinamente nei vicoli della Via Toledo,
addobbata per i suoi santi, indistintamente, laici e religiosi. Quando entra in
scena Enzo Moscato, con l’aria dimessa, in punta di piedi, sistemandosi in un
angolo, si comprende che vuole mantenere l’attenzione, non su di lui, ma su ciò
che si vede, si sente e si evoca. Così tra canzoni, scritti, brani musicali ed
immagini visive si snoda l’intero spettacolo di quasi due ore. Accompagnato da
un violino, Paolo Sasso, a volte
struggente, da una chitarra, Claudio
Romano, a segnare il ritmo e dalle percussioni, Paolo Cimino, sapientemente calibrate, tanto da essere l’alter ego
di Enzo, si ascoltano canzoni, che hanno fatto il volto pittoresco di una
città, tanto bella e tanto maltrattata. Accanto a “Palomma”, la notissima di
Armando Gill, a “Romanzetta”, a “Cerasella”, a “Che m’hè ‘mparate a fa?”a “Na
voce e na chitarra e’ o poco ‘e luna”,
ad “Anema e core” a “Lusingame” ed a “Scalinatella”, il fior fiore di una
produzione che ha accompagnato intere generazioni, troviamo brani composti
dallo stesso Moscato, musica di Pasquale
Scialò, come: “Toledo suite”, “Diva”, “Il porto di Toledo” che modernamente
ci spingono all’indietro. Enzo Moscato dal raffinato intellettuale qual è, ha
inserito nella scelta dei brani, perfino un pezzo in lingua giapponese, che
senza sforzo linguistico viene cantato amabilmente e con dolcezza, come geisha
suggerirebbe. I brani letti fanno affiorare i vicoli, il popolo e tutta quella
gente che si affida alla musica per librarsi, per evadere dalla complicata
realtà in cui sono costretti a vivere il quotidiano. E non è bello il concreto
che si para, prostitute, spacciatori, protettori, micro criminalità, accanto e
senza alcuna differenza sociale, a persone oneste, lavoratori e timorati.
Questo il volto di Via Toledo, il quartiere della sua infanzia, nello
spettacolo affettivamente omaggiato. E
poi c’è il linguaggio che Enzo Moscato usa, una sorta di cantilena che si rifà
all’infanzia, quando le parole hanno magia per i suoni arcaici che si tirano
dietro, quei suoni che mescola sapientemente a francesismi, a latino, a greco
per farne un solo impasto. Per “Scalinatella longa, longa, strettulella,
strettulella…” è bastato il movimento del drappo rosso, ondulato dalle sue
mani, per entrare nella tormentata passione di un innamorato deluso, il resto
lo fa la sua voce, morbida, confidenziale, dai toni che si ascoltano nel
passaggio da un vicolo all’altro. Un recital solo come formula scenica, ma per
le suggestioni e le emozioni che trasmette è un vero pezzo di magistrale
teatro. “Toledo fa paura, ma no è anima
pura, non è l’oscurità, o munne cheste sa…” canta Enzo Moscato ed è quello
che pensano tutti mentre si allontanano, canticchiandone il motivo
Maria Serritiello
La “Grand’ estate” di
Enzo Moscato al Teatro Diana di Salerno
“Grand’estate” è
piacevolmente il solito Enzo Moscato, quello che c’è di certo del suo teatro,
con le lucine accese e spente a contornare la scena, i pochi ma significativi
oggetti, di gusto particolare, sparsi nello spazio recitativo, i veli a rendere
fluorescente tutto il racconto ed il fondale nero, su cui si disegnano siluette
di corpi femminili, quasi non visibili, gola profonda del racconto convulso ed
incalzante, a volte delirante, ma di una logica stringata, per chi segue il suo
teatro e le sue tematiche, che, in questo caso, sono di un casino dei Quartieri Spagnoli di Napoli.
I fatti narrati risalgono
all’epoca fascista e all’occupazione dell’Africa orientale, una sorta di “memento”
di anni visti dalla parte delle prostitute, ovvero da vittime di uno sport
nazionale, sempre seguito, ma che in questo periodo privilegiato. Gli anni
vanno dal 1936 fino a fare capolino negli anni ’60, precisamente a quando per
la legge Merlin, 20 febbraio 1958, furono abolite le case chiuse. Intanto in
vari capitoli di narrazione, troviamo le parole affabulanti, per il loro
magnifico suono cantilenante, deliranti ed ossessive, di alcuni personaggi, che
in numero di due, interpretano di volta in volta, Sciuscetta, Poppina, Asor
Viola, Lattarella, DDT, Fraulè, Doktor, contorniate da cinque figuranti vestiti
da marinai, per il richiamo alla navigazione ed una narratrice. Compito di
Poppina e Sciuscetta, che già nel suono dei loro nomi si scorge una vita a
margine, è quello di mantenere alto il morale della soldataglia e dei gerarchi
di stanza nel suolo d’Africa e per questo intraprendono un viaggio sgangherato,
pieni d’insidie su di un barcone che le avrebbe condotte in quella terra
lontana. Dal racconto pressante e farneticante si apprende la vita degradata e
sviata delle prostitute, un’esistenza scandita dalla voglia di loschi
personaggi, di ore di attese, di confidenze minime, di visite mediche, di
abluzioni per mantenere lo standard al loro corpo, chiuse in un sacrario,
vessate da maitresse e costrette a quella vita tutti i giorni, senza un minimo
di affettività, per guadagnarsi la marchetta di sostentamento. Eppure quanta
dignità umana possiedono “le signorine”, consegnatesi alla vita rassegnate, dall’
immorale povertà, ma non per questo senza codice d’onore, quello che manca alle
escort attuali. Hanno pensato, in modo maldestro, che era quello e non altro il
loro destino, diventando, così, più “paria” di quanto non lo fossero altre
nelle loro stesse condizioni. Enzo Moscato dà loro voce, a mo’ di risarcimento,
una pietas intellettiva, che rende giustizia e conoscenza e quello che aggiunge
di kitsch o di troppo osato, lo fa per far mandare a mente un mondo, che
sebbene esistito e forse esistente, nessuno se n’è mai occupato con l’anima. Nella
sua pièce tanta memoria collettiva a rispolverare melanconicamente il passato,
come la musica, una parte importante che, ogni volta, invade la scena, ora è
L’Isola del tesoro, sceneggiato televisivo di Anton Giulio Maiano, con
l’immancabile coro di “Quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto…”
oppure “Geppina ragazza di fumo” da Risate di gioia di Mario Monicelli, 1960,
cantata dalla voce profonda e sensuale di Anna Magnani e da l’eccelso Totò. Ciò
che affascina di più e sempre di Enzo Moscato, nei suoi originali spettacoli, è
la parola, di cui lui è maestro. Partendo da Gian Battista Basile, segue
intrecci ed architettura linguistica con una sua complessa struttura, sicché il
linguaggio che ne deduce, e sì assecondato da Basile ma è rinnovato a suo piacimento. Tra le parole e i detti
sciorinati “Marvizzo”, per indicare il tordo e “Salute a fibbia dicette don
Fabio” per dire incuranza, sono citazioni tra le altre, che affollano il
linguaggio del testo, ripescando dal profondo, dove si sono depositate, per
essere in disuso, dato il linguaggio globale di cui si fa uso. E poi le parole mormorate fiatate a due e
ripetute come in un eco immaginario e lo spettacolo s’imbuca in un coro da
tragedia greca. E’ quello il suono e quello l’antico impianto culturale con i
quali Enzo Moscato ci delizia ogni volta.
“Grand’estate”
testo, regia e drammaturgia di Enzo Moscato.
Con
Massimo Andrei ed Enzo Moscato
e
con Giuseppe Affinito, Caterina Di Matteo, Gino Grossi, Francesco Moscato,
Giancarlo Moscato.
Scena
e costumi Tata Barbalato.
Musiche
Donamos.
Maria Serritiello
21-04-2016
Testo,
Ideazione e Regia Di Enzo Moscato
Con
Benedetto Casillo, Giuseppe Affinito, Salvatore Chiantone, Tonia Filomena,
Amelia Longobardi, Emilio Massa, Anita Mosca, Enzo Moscato, Antonio Polito.
“Occhi
Gettati”, dove “gettati” sta per dare uno sguardo selettivo su
qualcosa che molti, trascurano “una sorta di picassiana Guernica, sul
teatro, su Napoli e su me”, come lui stesso definisce il lavoro,
scritto nel 1986 e potato in scena dopo trent’anni. Del resto, gli 8
straordinari interpreti, che in cerchio affollano la scena sono corpi smembrati
dalla vita, come quelli spiaccicati nell’opera pittorica. Ed eccoli, fin
dall’inizio, prendere posto, uno ad uno, con vesti che già raccontano chi sono
stati e sono. Nello spazio recitativo accovacciati per terra, attendono la
vestizione: il velo. Il fondale è rigorosamente nero, al centro troneggia una
maxi scena di San Sebastiano, sparsi a terra petali di fiori per leggiadria di
contrasto e sotto Enzo Moscato, seduto dietro ad un leggio, segue, partecipa,
interviene, interpreta. Non mancano le lucine da festa di paese, scendere
dall’alto come timidi raggi illuminanti e lui, officiante di una liturgia laica,
a dare il via ad un racconto convulso, incalzante, a volte delirante, ma di una
logica stringata, per chi segue il suo teatro e le sue tematiche. Otto gironi
danteschi in cui si muovono: il femminiello, luparella, a strega, desnudo,
palummiello ed altre equivoche figure. Le narrazioni appartengono ad
un’esistenza di mezzo, a cui Enzo rende giustizia e conoscenza e quello che
aggiunge di kitsch o di troppo osato, è per mandare a mente un mondo, che
sebbene esistito e forse esistente, nessuno se n’è mai occupato con l’anima.
Il suo vuole essere un ennesimo
tributo al mondo altro che abita in ognuno di noi (vale anche per i non
napoletani), un mondo da alcuni accettato, da altri rimosso, da altri ancora,
solo oggetto di denigrazione e diffamazione e lo fa scegliendo un narrato corale,
polifonico con un occhio ai gironi danteschi e un altro all’accettazione che
Napule e’. Quasi un quadro di insieme,
una sorta di lascito testamentario artistico, letterario del proprio mondo.
Nella sua pièce tanta memoria collettiva a
rispolverare melanconicamente il passato, come la musica, una parte importante
che, ogni volta, invade la scena, ora allegramente con “Angelina”, cantata da Luis
Prima, con un americano approssimativo, come la lingua “ broukulina parlata dai nostri emigrati in America, o
come la leggiadria della lingua francese di Yves Montand. Un puzzle di ricordi,
di emozioni, stratificati nell’animo del grande artista. Al di sopra di tutto,
ciò che affascina di più e sempre di Enzo Moscato, nei suoi originali
spettacoli, è la parola, di cui è maestro. Una complessa struttura di intrecci
e citazioni, un’articolata architettura linguistica desunta dalle varie
invasioni subite dalla città e che affollano il linguaggio del testo. E poi le parole mormorate fiatate e ripetute
come in un eco immaginario e lo spettacolo s’imbuca in un coro da tragedia
greca. Ad unire tutto l’impianto
culturale, tutto questo mondo crudo e poetico, reso bellamente scenico da Enzo
Moscato, ripetuto più volte, come le parole recitate, per essere ben comprese,
il dolcissimo canto rievocativo di Franco Battiato, Prospettiva Nevski.
Improvvisamente, ognuno dei presenti, commossi e partecipi, sono entrati di
diritto nella creazione di Enzo Moscato.
Maria
Serritiello
23-03-2022
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