Fonte: www.lapilli.eu
di Maria Serritiello
E’ da subito che la
galera ti entra dentro, con il suo essere buia, scarna, vuota. L’infelicità si
tocca con mano. Là dentro, la liberante ha trascorso 16 anni, ora sta per
essere liberata, ha pagato il suo prezzo, ma ciò che ha passato si è attaccato
al suo essere, fisicamente, per cui gesti, reazioni, riso, pianto, accennata
storia della sua vita, sono sotto gli occhi dello spettatore. Si sa che ha due
figli piccoli, al momento della carcerazione, una madre che non vedrà più,
morirà il giorno stesso della sua liberazione e nel mezzo la sua detenzione
rappresentata con accenti forti, che mozzano il fiato. Due i personaggi, la
liberante e l’alter ego, a volte secondina, altre volte compagna di cella ed
altre volte ancora il sostegno dei suoi ricordi. La soglia è davanti a lei, ma
ne ha paura, e se non fosse all’altezza di riprendere la vita dove l’ha
interrotta? Si assiste ad un lento feedback, al processo, al patteggiamento,
alla condanna, uno sconto minimo sui 20 anni iniziali, alla disperazione di
dover abbandonare i suoi figli, già la maternità è sempre così forte su ogni
cosa! Come una bambola di pezza la donna viene trasportata nell’istituto di
detenzione, una via crucis l’entrata, sottolineata da rumori di ferraglia, di
cancelli che si aprono e si chiudono, trilli di telefoni di martellamenti, di
sghignazzi e poi, la cella, un buco senz’aria, due casse per branda, una sedia
di nichelio, solo sagoma, per dire che la seduta non è un momento di relax come
lo è di solito.
“Togliti l’impermeabile”
le intima la carceriere, poi con fredda successione tutti gli altri indumenti,
fino a restare nuda, un chiaro simbolismo per dire che in cella non sei più
nessuno. Brava, Loretta Giovanetti, la
regista che con delicatezza tutta femminile è riuscita a rendere nuda la
carcerata senza che le parti in mostra avessero un che ben minimo di volgarità
espositiva. Lasciati gli abiti della libertà, ora è apparecchiata per la
detenzione.
Le visite dei familiari
sono importanti, da tre anni non vede suo figlio, ma oggi è il giorno. Si
prepara, si veste, si ravvia i capelli, si pizzicotta le guance per coprire
l’ovvio pallore e palpitante si avvia. Torna quasi subito, a testa bassa, lo
sguardo fisso ed il lutto nel cuore, suo figlio la rifiuta. La vita non le
risparmia mai nulla e così da sempre, fino a spingerla in una cella fetida,
dove stranamente trova riparo, tanto peggio di là, dove. Così la compagna di
cella diventa la sua famiglia, la depositaria delle sue angosce, dei suoi
tormenti, delle sue paure, ma anche dei suoi desideri saffici, insomma nel
posto che meno te lo aspetti, tra donnacce, prostitute, ladre ed assassine si
sta bene, almeno parli; tra infanticide e bordelli, almeno vivi ed ancora, tra crisi
delle tossiche o la radio ad alto volume delle più giovani, i pidocchi, panni
stesi e la sporcizia delle barbone, almeno esisti.
Il cambio di
destinazione, dopo anni di permanenza nella prima prigione è per lei
destabilizzante, un adattamento inaccettabile perché si trovava bene nel primo
penitenziario, la strappano via, la sistemano sul cellulare e poi in treno. Di effetto
scenico il trasferimento, sottolineato da una musica originale che rende
l’andar del treno sulle rotaie.
Nuova ambientazione e
nuove angosce fino al momento di abbandonare per sempre la prigione. Sta sulla
soglia, si guarda indietro e s’imbuca in una di quelle notti senza regole, dove
le detenute trasgrediscono le regole, infischiandosi della cella d’isolamento,
ironicamente soprannominata Chamonix, per il freddo e d’estate Saint Tropez.
“La notte è nostra direttrice” affermano con voluttà senza freni, l’intreccio
dei corpi ne è la dimostrazione.
“Addio allora, addio a
tutte voi che restate, con il bagaglio pieno di vite iniziate e spezzate a
metà, io vado, ma non so chi trovo ad aspettare… Nessuno! Io vivo da sola con
il mio crimine, due colpi di fucile in mezzo al petto di mio marito! Ho 49 anni
e sono sulla soglia, voglio uscire, noo non voglio, arriverà la prima guardia,
mi aspettano, guarderò il passaporto, la foto è di vent’anni addietro, non mi
volterò, porta sfortuna, odo il grido di Nicole, lei sconterà l’ergastolo e
l’assenza di un’amica particolare. Non piangerò. Guarderò fisso davanti a me,
ho paura …la porta sta per chiudersi. Ecco è fuori … “ci sono lacrime del cuore che non arrivano agli occhi”
“La
soglia”, in francese “le Sas” di Michel Azama, scritta nel 1986 è
il terzo spettacolo del Festival Nazionale XS di
Salerno presentato dalla produzione
Grandi Manovre di Forlì per la regia di Loretta Giovannetti, anima e corpo
dello spettacolo al quale prestano il loro talento indiscutibile: Beatrice Buffadini, la liberante e una
volenterosa Francesca Fantini. Le ridotte misure del teatro hanno reso
il pezzo più drammatico di quanto il testo stesso vorrebbe, per via di una
indagine psicologica pressoché superficiale nello scandire passaggi, già
drammatici, legati alla localizzazione del tutto: carcere femminile di
personalità borderline, responsabili di crimini esecrandi, dove naturalmente
tutto è più! Ad equilibrare ed a pareggiare la situazione, ecco l’intervento
della regia nella scelta delle musiche originali (Renato Billi) e quelle adattate (Matteo Camorani), che sono funzionali al dipanarsi della storia ed
a dettare i tempi delle battute, un terzo personaggio in scena, così come la
gestualità corporea.
Maria
Serritiello
La
Soglia, riadattamento testo: Loretta Giovanetti
Ideazione
progetto luci: Adler Ravaioli
Colonna
Sonora Originale: Renato Billi
Effetti Sonori Tribunale: Matteo Comorani
Arredi
di Scena: Sergio Cangini
Costumi
e Oggetti: A cura del Cast
Grafica:Beatrice
Buffadini
Una
produzione: Grandi Manovre in collaborazione con Orto del Brogliaccio
Regia Loretta
Giovanetti
Maria Serritiello
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