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mercoledì 19 ottobre 2011

L’antica popolare pasticceria Chianese



FONTE: IL BLOG DI SALERNO SU VIRGILIO
DI MARIA SERRITIELLO

Qualche tempo fa, prima che la dolcissima Signora D’Acunto ci lasciasse, avevo tratteggiato un suo profilo, che mi piace proporre in GuestBook. Così chi non la conosce, data l’età giovane, ne ha l’opportunità e chi la ricorda, la ritrova intatta nella memoria.

'Un po’ prima d’inoltrarsi nello slargo del Largo Campo, soffermarsi nella pasticceria Chianese è un forte richiamo che poco ha di commerciale per molti salernitani ma che ogni volta amano rinnovare.
La titolare, Nicolina D’acunto, una dolce signora di una certa età, accoglie tutti con un contenuto sorriso, quello che si può ancora trovare sulle statue delle Madonnine venerate in costiera. I capelli tirati indietro e fermati dalle forcine di finta tartaruga, sono uguali a quelli delle nonne, quando avevano tutte la stessa faccia. La dolcezza è quella dei suoi dolci che senza mai stancarsi e nel timore di Dio, fa da anni e da sola. La sua è una storia semplice, malinconica che la vede prima giovanissima, perdere il compagno della sua vita e poi consegnata al tempo, instancabile e laboriosa. Si entra, lasciando nella strada l’ombra dei vicoli e nella pasticceria che, nella sua storia, vanta di aver fatto assaggiare gustose zeppole perfino a Garibaldi, si ha l’impressione che gli ammodernamenti eseguiti non più di 5 anni fa, poco o niente hanno cancellato tracce di un passato qui annidato, profumato alla cannella. All’istante, il luogo e la piccola signora, risultano familiari, si ha voglia di parlare, ascoltare le sagge parole messe in fila e offerte naturali, come un pacchetto di durevoli amaretti. E di cose ne dice ma sempre dosandosi, come per una ricetta buona e quando dettaglia sul grano rifornito a intere generazioni della città per la fattura della pastiera, il sostanzioso dolce Pasquale, il racconto diventa una favola del c’era una volta. “Il grano” dice con fievole voce, mentre assesta le mani operose nel grembo protetto da un bianco sinale è portato fin qui da un grossista napoletano. Secco e tenero esso va lavato sette volte. Ecco, la ripetizione del gesto metodico della preparazione diventa simile al magico elemento delle favole vere: “…sette paia di scarpe ho consumato…, sette gnocchi hai da preparare se il principe vuoi sposare… e sette sono le leghe per il gatto con gli stivali…”. Allora, la cucina che s’intravede al di là del bancone e le scansie rinnovati quel tanto che basta, assume la struttura di antro spolverato dalle suggestioni incantate, con i suoi calderoni di lucido rame, ogni anno stagnati da un artigiano di Coperchia, avanti negli anni, con le grandi circonferenze che inghiottono un mezzo quintale alla volta di granuloso impasto e con lunghe, capaci cucchiaie di legno che servono ad aiutare le quattro ore di cottura. Ogni tanto, l’alchimia profumata riceve acqua tiepida, appositamente aggiunta per non far prosciugare il composto. Gesti lenti pazienti scenici che nessuno più sa interpretare e la stessa signora arrendevole dice consapevole “tutto è cambiato, non c’è più nulla come prima”. Ma come prima, come sempre, Lei, ha con gli avventori un legame di parentela, dispensando caramelle ai più piccini, chiedendo affettuosamente notizie sui più vecchi e rallegrandosi che ai suoi clienti, come per i familiari, le cose vadano bene. Cinquant’anni trascorsi così, ad addolcire testardamente tutto l’amaro della vita, a fare del suo mestiere una nobile arte. E tante, tra le altre, le sue specialità: dalle scorzette di cedro e zucca candite, al pan di spagna spalmato di “naspro”, la glassa di zucchero cotto, dai confetti di mandorle e cacao, alle “teste di moro”, vere ghiottonerie al cioccolato. Nei vasetti, poi, di vetro trasparente posti con ordine negli stipi, sorridono al tempo: cannellini bianchi appuntiti, topolini bicolore elak, moltiplicata granella e allegri diavolini per la guarnizione vivace di torte e struffoli di Natale. Alla parete e alla vista quasi sfugge, una pergamena della Camera del Commercio con su scritto “Medaglia d’oro, al merito, per aver mantenuto la tradizione artigianale”. La mansueta “Signora” raccolta nei gesti si schernisce, abbassa il capo e guarda le proprie mani, forti, lisce: sono quello, solo quelle, la sua unica e vera medaglia d’oro da vantare.

MARIA SERRITIELLO
IL BLOG DI SALERNO SU VIRGILIO
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Maria Serritiello

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