Il 15esimo Festival XS città di Salerno,
organizzato dalla Compagnia dell’Eclissi, si è aperto il 21Gennaio 2024,
con un pezzo di teatro, fuori concorso di Stefano Massini: Lo Stato
contro Nolan.
La storia
Ad inizio, il sipario è
spalancato su di un’aula di tribunale che risulta essere quella della contea di
Leister. Il processo, che si consumerà a breve, è quello dello stato contro
Nolan, dove Nolan sta per il direttore del locale quotidiano, Leister Telegraph.
Che cosa è successo in questo angolo di mondo, nel cuore degli Stati Uniti,
detto “posto tranquillo” come si legge dal messaggio di benvenuto, affisso
ovunque? Un imprevedibile fatto di sangue, giusto per sconvolgere la vita dei
tranquilli cittadini. Ed ecco che, in un giorno qualunque, un bonario vagabondo
sconfina, per caso, nella proprietà di una famiglia anabattista, ma viene
selvaggiamente ucciso a colpi di fucile dal vecchio proprietario, convinto
com’è che il girovago volesse attendere alle virtù della sua giovane nipote
Else. I due erano soli in casa e la circostanza non fa altro che amplificare la
paura, tanto da far commettere il brutale assassinio. La contea ne resta
sconvolta ed ognuno reagisce a proprio modo, aiutato dall’amplificazione del
fatto, per meri interessi privati, come si apprenderà dal processo intentato.
Da questo fatto di per sé
comune, l’autore, Stefano Massini, costruisce un legal sociale, per
affrontare temi civili ed etici e non per assegnare colpevolezze o considerare
innocenze, ma per analizzare il valore pubblico della parola, particolarmente
di quella stampata, il ruolo essenziale della paura, il rapporto fra interessi
finanziari e comunicazione, i confini morali per le leggi di mercato, l’uso
indiscriminato delle armi, l’eccesso di autodifesa, la discriminazione e il
rifiuto del diverso. Temi di scottante attualità, in un mondo, il nostro che affronta
sistematicamente distorsione e manipolazione della realtà per fini politici,
aiutati dall’abilità manipolatoria dei mass media.
Così, Massini ci presenta
un vero e proprio processo e cioè l’accusa di Herbert Nolan, la sua difesa, i
testimoni chiamati uno ad uno a depositare: Else, la nipote, il giornalista, il
curato e la maestra. Tutti hanno una loro verità e nulla aggiungono di più a
quanto già si sa, se non che Nolan ha costruito un battage pubblicitario per
settimane, per dare lustro al suo giornale e, lavorando sulla paura dei paesani,
le armi vendute hanno fatto accrescere i suoi interessi economici, come
azionista della fabbrica. La difesa, intanto è sicura di sé, Nolan non potrà
essere accusato, lui ha esercitato il diritto della stampa per attrarre più
lettori, anche servendosi di notizie false, le attuali fake news, che tanto
confondono l’informazione. “Usare le parole è rischiare: chiunque parla,
chiunque scriva, chiunque si rivolga – in qualsiasi modo – a un altro essere
umano, accetta di buon grado il pericolo di essere frainteso, usato, distorto.”
Lo grida a gran voce il giornalista chiamato in causa.La parola
stampata, dunque, fa uno strano effetto sulle persone, tanto da essere considerata,
pari d’importanza, alla Bibbia e non fa altro che confermare le paralizzanti
paure che albergano, malgrado la reale realtà, nelle persone.
Tutta la rappresentazione
ha l’aria di una pièce cinematografica, i tempi sono quelli giusti, tanto da incastrarsi
in maniera perfetta, senza poter dare spazio allo spettatore, che resta
attaccato, per un’ora e mezza, al processo con un’attenzione maniacale. Il
ruolo degli attori è strepitoso, la loro recitazione è curata all’inverosimile
e va dagli strilloni, all’accusa, dal giudice alla difesa, dai testimoni a
Nolan. Un’eccezionale prova attoriale, che conferma, se ce ne fosse bisogno, la
bravura della Compagnia dell’Eclissi e la sapienza delle scelte, operate ogni
volta, sicché andare a teatro è soprattutto crescita. Un testo non facile,
quello di Stefano Massini, dall’ impianto solido e dove ogni parola ha un peso
importante, come quello assoluto delle pietre che va ad incidere, senza
sbagliare, coscienze. Già nella scelta,
di un testo così rigoroso, per i temi etici e sociali affrontati, sta la
straordinaria capacità di regia di Marcello Andria, che ogni volta si conferma
e sempre senza tema di smentita. Un bell’impegno, anche perché gi attori sono
tanti e la sua è una riuscitissima prova d’orchestra. Complimenti!
Poi gli attori. Ognuno ha
rivestito i panni giusti, dando vita ad un insieme di sequenze senza respiro.
Il pubblico, è stato consapevolmente rapito della loro capacità interpretativa
e della personalizzazione così opportuna dei personaggi, oltre alla non
trascurabile prova di straordinaria memoria, infatti il testo non lascia spazio
a nessuna vaghezza mentale. Tutti consumati attori e perfettamente a loro agio
nei ruoli assegnati, come l’avvocato Nathan, della difesa, nel sobrio abito
scuro e nel quale riconosciamo un sicuro e navigato Vincenzo Tota, o la
maestra, tronfia della sua superiorità, Lea Di Napoli o ancora il (procuratore
Eleanor E. Miles), l’accusa, Marica De Vita perfetta senza nessuna
sbavatura, anzi a suo agio, per severità e sicurezza. Troneggia in tutti i
sensi, il giudice Rutherford, ovvero Felice Avella, che ogni volta
lascia la sua impronta nei personaggi interpretati e poi tutti gli altri,
sistemati nel ruolo giusto ed opportuno per far sì che lo spettacolo risultasse
un pezzo importante, direi il più importante di questa stagione teatrale della
Compagnia dell’Eclissi, per cui lode a Maurizio Barbuto (il pastore),
ad Ernesto Fava, Herbert Nolan, al talentuoso Marco De Simone
(Norman Weiss), autore tra l’altro delle musiche originali, ad Alfredo
Marino, il caloroso, giornalista, Paul Kapinski, autore insieme ad
Emanuela Barone, delle scene ed infine, ma non per questo ultima Gerarda
Mariconda (l’impacciata Else). I costumi sono di Angela Guerra,
insostituibile nell’apporre la sua firma
Maria Serritiello
www.lapilli.eu
Stefano Massini
è lo scrittore italiano vivente più rappresentato sui palcoscenici di tutto il
mondo. Tradotto in ventiquattro lingue, celebrato da Broadway al West End di
Londra, è portato in scena dal premio Oscar Sam Mendes. Nel 2015, dopo il
grande successo del suo trittico diretto da Luca Ronconi, viene nominato
consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano. Il suo romanzo Qualcosa sui
Lehman (Mondadori, 2016), tradotto in vari paesi, è stato uno dei libri più
acclamati degli ultimi anni (premio Selezione Campiello, premio SuperMondello,
premio De Sica e ora il Prix Médicis e il Prix Meilleur Livre Étranger in
Francia). Il suo secondo romanzo è L'interpretatore dei sogni (Mondadori,
2017). Firma del quotidiano "la Repubblica", è volto noto televisivo
per i suoi racconti del giovedì nella trasmissione "Piazzapulita" su
La7.
P.S Lo spettacolo avrà
due repliche, con date da stabilire, in febbraio ed in marzo.
Così ti vorrò sempre ricordare, con questa foto manifesto che ha troneggiato, negli anni '70 nella mia cameretta di giovane appassionata di te. Un Dio greco, bello, forte e vincitore. Il Cagliari era diventa una squadra di casa, sono venuta fino a Napoli, per vederti giocare e tu bellissimo, nello stadio San Paolo eri l'immagine più bella che io ricorda. Con mio fratello Antonio, ora che lo incontri, fatti dire quanto ci hai fatto sognare in Messico '70. In quei giorni di mondiali, dovevo dare l'esame di spagnolo all'università, ma le partite erano un'attrattiva troppo forte, risultò che mi restarono solo 15 giorni per preparare l'esame, ma tant'è vederti giocare era centomila volte più importante per me, cq l'esame lo superai e ti dedicai la vittoria come tu facevi per i goal. Ricordo con apprensione il campionato europeo, nella città di Vienna e dove il giocatore Hoff ti spezzò la gamba sinistra. Vederti uscire dal campo, disteso su di una barella, dolorante, ancora mi addolora. Mi hai tenuto compagnia per molti anni, quel tuo grandissimo post, largo mezza parete, non è molto che l'ho arrotolato e conservato di nascosto in garage. Me lo aveva regalato il mio amatissimo fratello, che ti ha dolorosamente preceduto, conoscendo la mia passione per te ed io avevo regalato in cambio un post bellissimo e traslucido di Jimmy Hendrix. Che ricordi, che emozioni pure, ogni volta che segnavi. Un mare di sentimenti, ora mi agitano, la mia gioventù intrecciata alla tua vita, che manco sapevi della mia, ma la bellezza stava proprio in questa pura gioia
Non potrò mai dimenticare la partita del secolo, Italia Germania 4 a 3 dove anche tu segnasti e la gioia notturna si trasformò in apoteosi. Mio fratello, mi chiese il permesso di poter andare a comprare le sigarette, aveva 17 anni e dinanzi a me non aveva ancora fumato. Fui indulgente, quella volta e gli diedi il consenso di andarle a comprare nell'intervallo. Potrei continuare con tanti passaggi della mia vita dove tu sei stato presente, ma io stasera devo stare concentrata per trattenerti nei miei ricordi, da domani sarai di tutti ed è giusto che sia così, sei stato e resterai il grande del calcio italiano ed io così voglio tenerti per sempre
Sbelut è certamente uno
stato che Pasquale rappresenta in maniera degna, anche in maniera fisica ed
allora, dinoccolato, capelli arruffati, camicia sblusata, affronta i vari
problemi che lo rendono "sbelut". Inizia con esaltare il mare, quel
mare che è un elemento indispensabile per vivere in modo equilibrato. Affronta
vari temi con, a volte, monologhi non sense che gli fanno dire di non farcela
più. Anche la televisione lo svilisce, con personaggi, come Filumena e Gerardo,
che fanno il verso alle fiction popolari. Poi, affronta il problema body
scening e lo conclude a modo suo, con una battuta che fa sorridere, ma non
divertire. Ecco, i temi trattati sono quelli che ci ronzano intorno ma da
Pasquale sono esposti più con malinconia che con divertimento, come se avesse
preso coscienza che c’è poco da ridere e per questo è Sbelut.
Il pezzo migliore, dove
Pasquale, con la parola “Cavere”, il caldo, fa l'imitazione di Peppe Barra
infiammando lo spettacolo, ci ha fatto rimpiangere la sua imitazione di Nino
D’Angelo, che per l’occasione è Vivo D’Angelo, caschetto biondo ed il mantra
ripetuto “ Anna Marì”.
Insomma uno spettacolo di
svolta, una comicità pensata, che affronta problemi attuali con la leggerezza
della risata e non con il vuoto delle parole, solo accattivanti.
Uno spettacolo stuzzicante,
il suo, pieno di buone intenzioni, a tratti divertente, ma da Pasquale Palma ci
aspettiamo di più, perché in passato ha dimostrato di saperlo fare. E" in
crescita e con questo spettacolo è visibile.
Maria Serritiello
www.lapilli.eu
Pasquale Palma,
Nasce a Napoli nel 1986
e cresce a Giugliano in Campania (nell’area nord di Napoli). Fin da piccolo,
mentre tutti i suoi amici sognano di diventare i nuovi Maradona, Pasquale resta
affascinato da Totò, Sordi, Troisi, Verdone
Voglio ricordare il grande drammaturgo napoletano con le mie recensioni dei suoi spettacoli. Ogni volta mi sono arricchita e quel suo modo di rappresentarsi toccava le corde più intime del mio sentire.
Un vero dispiacere, ciao Enzo
Presentato al Ghirelli di
Salerno il monologo di Enzo Moscato “Compleanno”
“Ma lo sai di chi è il
compleanno oggi, lo sai? Lo sai di chi è il compleanno oggi?” A ripetere
tristemente più volte la domanda, senza ottenere risposta, è Enzo Moscato, che,
strascicando il passo, schiacciato dal peso di quegli anni, trenta per
l’esattezza e non più attribuibili ad Annibale Ruccello, sono caduti tutti
sulle sue spalle. Lo scenario, ridotto all’essenziale, è efficacemente scuro,
mai il nero del Ghirelli è apparso così opportuno, mentre nel buio, come panni
stesi, spicca un filare di palloncini colorati, segno che il compleanno davvero
ci sarà, almeno come rito che si compie. Al centro della scena una sedia,
ricoperta di voile e di rose, attira l’attenzione, mostrandosi come un vero
“tosello”, di quelli che venivano creati a Pagani dal compianto Franco Tiano,
il principe della tradizione popolare, durante la ricorrenza della Madonna
delle Galline. La sedia, trono vuoto e punto della rappresentazione, evoca
struggente la mancanza di chi, in questo giorno, avrebbe dovuto compiere gli
anni. Enzo Moscato, nel suo intenso pezzo teatrale “Compleanno” unisce allo
stesso filo, la vita e la morte di Annibale Ruccello. Quando il 12 settembre
del 1986, per un mortale incidente, si spense una delle voci più interessanti
ed originali del teatro italiano della seconda metà del XX secolo, Enzo
Moscato, suo fraterno amico e collaboratore artistico, in sua memoria compose
“Compleanno” dove l’assenza di Ruccello diventa presenza e viceversa. Un
monologo che raccoglie, come in un discorso a due, ma è solo Enzo a raccontare,
storie ricordi, episodi, avvenimenti, citazioni, tutto condensato in un
linguaggio colto, tuttavia popolare, pieno di francesismi, di parole arcaiche e
cantilene dimenticate come alcune fra tutte: “nzarvamiente”, “nu mumente, ment
accorde stu strumente” “Sant’ Antuone, Sant’Antuone pigliete o viecchie e
lasseme o nuove”. In scena mestamente Enzo Moscato, torta e candeline accese, è
pronto a festeggiare il compleanno di Annibale Ruccello, perché nel suo cuore
l’amico non se n’è mai andato. In alcuni momenti del monologo Moscato tace, sì
da rafforzare l’assenza e poter cedere la scena alla musica, quella decisa,
mediterranea, dagli arpeggi forti e dalle voci nasali incalzanti dei Gipsy
Kings, una in particolare “ Tu quieres volver” (si desidera tornare) a scandire
il tempo, le emozioni, i desideri, i ricordi. Ed eccoli i personaggi e i
simboli di Ruccello tornare, in una parata surreale: le rose di Jennifer, i
travagli di Anna e poi Ferdinando, Ines, Bolero, Spinoza, i sorci, le matte, le
gatte, Rusinella, i mutanti, i maniaci, gli innesti, le ibride, i pirati, i
priori, gli scrittori, gli inquisitori. Stupenda l’interpretazione di Enzo
Moscato che da trent’anni rappresenta con lo stesso identico calore la vita e
la morte del suo amico ed anche il piccolo incidente in scena (ha preso fuoco
la sua vestaglia mentre si è avvicinato troppo alle candele accese) è segno che
di quell’antico sodalizio non si è mai spenta la fiamma “ Chi muore giovane,
muore una volta sola, gli altri, quelli che restano, muoiono tante volte”, dice
introducendo il lavoro, il giovane attore, personale smilzo, elegante e biondi
i capelli, un Ferdinando ruccelliano per bellezza e giovinezza. “Tu quieres
volver” (si desidera tornare), ossessiva e forte si diffonde in sala a volume
alto, silenziando ogni altra parola. Magari si potesse!
Toledo Suite di Enzo
Moscato al Teatro Diana di Salerno
Il mondo emozionale di
parole e canzoni di Enzo Moscato, è
dentro lo spettacolo “Toledo Suite”,
presentato in due serate, 19 e 21 febbraio, al Teatro Diana, sala che si apre
sulla parte nuova e più bella del Lungomare di Salerno. L’attore-chansonnier,
67 anni il prossimo 20 aprile, attraverso brani di Brecht, Duras, Viviani,
Weill, Lou Reed e Taranto, compie un raffinato percorso musicale, aiutato dalla
musica di Pasquale Scialò e da Mimmo Palladino per i disegni
realizzati.
La scena è volutamente
scarna, cupa, senza nessun arredo, se non una sedia al centro, ricoperta da un
drappo rosso, con a lato un leggio, interamente addobbato da tondi e
scenografici pomodorini. Il fondale è nero, intorno un velario su cui
s’imprimono, di volta in volta, scritte ossute di un bianco iridescente.
Circonda il tutto, una serie di lucine colorate, intermittenti, a mo’ di
luminarie, per trasferirci repentinamente nei vicoli della Via Toledo,
addobbata per i suoi santi, indistintamente, laici e religiosi. Quando entra in
scena Enzo Moscato, con l’aria dimessa, in punta di piedi, sistemandosi in un
angolo, si comprende che vuole mantenere l’attenzione, non su di lui, ma su ciò
che si vede, si sente e si evoca. Così tra canzoni, scritti, brani musicali ed
immagini visive si snoda l’intero spettacolo di quasi due ore. Accompagnato da
un violino, Paolo Sasso, a volte
struggente, da una chitarra, Claudio
Romano, a segnare il ritmo e dalle percussioni, Paolo Cimino, sapientemente calibrate, tanto da essere l’alter ego
di Enzo, si ascoltano canzoni, che hanno fatto il volto pittoresco di una
città, tanto bella e tanto maltrattata. Accanto a “Palomma”, la notissima di
Armando Gill, a “Romanzetta”, a “Cerasella”, a “Che m’hè ‘mparate a fa?”a “Na
voce e na chitarra e’ o poco ‘eluna”,
ad “Anema e core” a “Lusingame” ed a “Scalinatella”, il fior fiore di una
produzione che ha accompagnato intere generazioni, troviamo brani composti
dallo stesso Moscato, musica di Pasquale
Scialò, come: “Toledo suite”, “Diva”, “Il porto di Toledo” che modernamente
ci spingono all’indietro. Enzo Moscato dal raffinato intellettuale qual è, ha
inserito nella scelta dei brani, perfino un pezzo in lingua giapponese, che
senza sforzo linguistico viene cantato amabilmente e con dolcezza, come geisha
suggerirebbe. I brani letti fanno affiorare i vicoli, il popolo e tutta quella
gente che si affida alla musica per librarsi, per evadere dalla complicata
realtà in cui sono costretti a vivere il quotidiano. E non è bello il concreto
che si para, prostitute, spacciatori, protettori, micro criminalità, accanto e
senza alcuna differenza sociale, a persone oneste, lavoratori e timorati.
Questo il volto di Via Toledo, il quartiere della sua infanzia, nello
spettacolo affettivamente omaggiato.E
poi c’è il linguaggio che Enzo Moscato usa, una sorta di cantilena che si rifà
all’infanzia, quando le parole hanno magia per i suoni arcaici che si tirano
dietro, quei suoni che mescola sapientemente a francesismi, a latino, a greco
per farne un solo impasto. Per “Scalinatella longa, longa, strettulella,
strettulella…” è bastato il movimento del drappo rosso, ondulato dalle sue
mani, per entrare nella tormentata passione di un innamorato deluso, il resto
lo fa la sua voce, morbida, confidenziale, dai toni che si ascoltano nel
passaggio da un vicolo all’altro. Un recital solo come formula scenica, ma per
le suggestioni e le emozioni che trasmette è un vero pezzo di magistrale
teatro. “Toledo fa paura, ma no è anima
pura, non è l’oscurità, o munne cheste sa…” canta Enzo Moscato ed è quello
che pensano tutti mentre si allontanano, canticchiandone il motivo
Maria Serritiello
26 02 2016
La “Grand’ estate” di
Enzo Moscato al Teatro Diana di Salerno
“Grand’estate” è
piacevolmente il solito Enzo Moscato, quello che c’è di certo del suo teatro,
con le lucine accese e spente a contornare la scena, i pochi ma significativi
oggetti, di gusto particolare, sparsi nello spazio recitativo, i veli a rendere
fluorescente tutto il racconto ed il fondale nero, su cui si disegnano siluette
di corpi femminili, quasi non visibili, gola profonda del racconto convulso ed
incalzante, a volte delirante, ma di una logica stringata, per chi segue il suo
teatro e le sue tematiche, che, in questo caso, sono di un casino dei Quartieri Spagnoli di Napoli.
I fatti narrati risalgono
all’epoca fascista e all’occupazione dell’Africa orientale, una sorta di “memento”
di anni visti dalla parte delle prostitute, ovvero da vittime di uno sport
nazionale, sempre seguito, ma che in questo periodo privilegiato. Gli anni
vanno dal 1936 fino a fare capolino negli anni ’60, precisamente a quando per
la legge Merlin, 20 febbraio 1958, furono abolite le case chiuse. Intanto in
vari capitoli di narrazione, troviamo le parole affabulanti, per il loro
magnifico suono cantilenante, deliranti ed ossessive, di alcuni personaggi, che
in numero di due, interpretano di volta in volta, Sciuscetta, Poppina, Asor
Viola, Lattarella, DDT, Fraulè, Doktor, contorniate da cinque figuranti vestiti
da marinai, per il richiamo alla navigazione ed una narratrice. Compito di
Poppina e Sciuscetta, che già nel suono dei loro nomi si scorge una vita a
margine, è quello di mantenere alto il morale della soldataglia e dei gerarchi
di stanza nel suolo d’Africa e per questo intraprendono un viaggio sgangherato,
pieni d’insidie su di un barcone che le avrebbe condotte in quella terra
lontana. Dal racconto pressante e farneticante si apprende la vita degradata e
sviata delle prostitute, un’esistenza scandita dalla voglia di loschi
personaggi, di ore di attese, di confidenze minime, di visite mediche, di
abluzioni per mantenere lo standard al loro corpo, chiuse in un sacrario,
vessate da maitresse e costrette a quella vita tutti i giorni, senza un minimo
di affettività, per guadagnarsi la marchetta di sostentamento. Eppure quanta
dignità umana possiedono “le signorine”, consegnatesi alla vita rassegnate, dall’
immorale povertà, ma non per questo senza codice d’onore, quello che manca alle
escort attuali. Hanno pensato, in modo maldestro, che era quello e non altro il
loro destino, diventando, così, più “paria” di quanto non lo fossero altre
nelle loro stesse condizioni. Enzo Moscato dà loro voce, a mo’ di risarcimento,
una pietas intellettiva, che rende giustizia e conoscenza e quello che aggiunge
di kitsch o di troppo osato, lo fa per far mandare a mente un mondo, che
sebbene esistito e forse esistente, nessuno se n’è mai occupato con l’anima. Nella
sua pièce tanta memoria collettiva a rispolverare melanconicamente il passato,
come la musica, una parte importante che, ogni volta, invade la scena, ora è
L’Isola del tesoro, sceneggiato televisivo di Anton Giulio Maiano, con
l’immancabile coro di “Quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto…”
oppure “Geppina ragazza di fumo” da Risate di gioia di Mario Monicelli, 1960,
cantata dalla voce profonda e sensuale di Anna Magnani e da l’eccelso Totò. Ciò
che affascina di più e sempre di Enzo Moscato, nei suoi originali spettacoli, è
la parola, di cui lui è maestro. Partendo da Gian Battista Basile, segue
intrecci ed architettura linguistica con una sua complessa struttura, sicché il
linguaggio che ne deduce, e sì assecondato da Basile ma è rinnovato a suo piacimento. Tra le parole e i detti
sciorinati “Marvizzo”, per indicare il tordo e “Salute a fibbia dicette don
Fabio” per dire incuranza, sono citazioni tra le altre, che affollano il
linguaggio del testo, ripescando dal profondo, dove si sono depositate, per
essere in disuso, dato il linguaggio globale di cui si fa uso. E poi le parole mormorate fiatate a due e
ripetute come in un eco immaginario e lo spettacolo s’imbuca in un coro da
tragedia greca. E’ quello il suono e quello l’antico impianto culturale con i
quali Enzo Moscato ci delizia ogni volta.
“Grand’estate”
testo, regia e drammaturgia di Enzo Moscato.
Con
Massimo Andrei ed Enzo Moscato
e
con Giuseppe Affinito, Caterina Di Matteo, Gino Grossi, Francesco Moscato,
Giancarlo Moscato.
Scena
e costumi Tata Barbalato.
Musiche
Donamos.
Maria Serritiello
21-04-2016
Al
Teatro Ghirelli di Salerno “Occhi Gettati”
Testo,
Ideazione e Regia Di Enzo Moscato
Con
Benedetto Casillo, Giuseppe Affinito, Salvatore Chiantone, Tonia Filomena,
Amelia Longobardi, Emilio Massa, Anita Mosca, Enzo Moscato, Antonio Polito.
“Occhi
Gettati”, dove “gettati” sta per dare uno sguardo selettivo su
qualcosa che molti, trascurano “una sorta di picassiana Guernica, sul
teatro, su Napoli e su me”, come lui stesso definisce il lavoro,
scritto nel 1986 e potato in scena dopo trent’anni. Del resto, gli 8
straordinari interpreti, che in cerchio affollano la scena sono corpi smembrati
dalla vita, come quelli spiaccicati nell’opera pittorica. Ed eccoli, fin
dall’inizio, prendere posto, uno ad uno, con vesti che già raccontano chi sono
stati e sono. Nello spazio recitativo accovacciati per terra, attendono la
vestizione: il velo. Il fondale è rigorosamente nero, al centro troneggia una
maxi scena di San Sebastiano, sparsi a terra petali di fiori per leggiadria di
contrasto e sotto Enzo Moscato, seduto dietro ad un leggio, segue, partecipa,
interviene, interpreta. Non mancano le lucine da festa di paese, scendere
dall’alto come timidi raggi illuminanti e lui, officiante di una liturgia laica,
a dare il via ad un racconto convulso, incalzante, a volte delirante, ma di una
logica stringata, per chi segue il suo teatro e le sue tematiche. Otto gironi
danteschi in cui si muovono: il femminiello, luparella, a strega, desnudo,
palummiello ed altre equivoche figure. Le narrazioni appartengono ad
un’esistenza di mezzo, a cui Enzo rende giustizia e conoscenza e quello che
aggiunge di kitsch o di troppo osato, è per mandare a mente un mondo, che
sebbene esistito e forse esistente, nessuno se n’è mai occupato con l’anima.
Il suo vuole essere un ennesimo
tributo al mondo altro che abita in ognuno di noi (vale anche per i non
napoletani), un mondo da alcuni accettato, da altri rimosso, da altri ancora,
solo oggetto di denigrazione e diffamazione e lo fa scegliendo un narrato corale,
polifonico con un occhio ai gironi danteschi e un altro all’accettazione che
Napule e’. Quasi un quadro di insieme,
una sorta di lascito testamentario artistico, letterario del proprio mondo.
Nella sua pièce tanta memoria collettiva a
rispolverare melanconicamente il passato, come la musica, una parte importante
che, ogni volta, invade la scena, ora allegramente con “Angelina”, cantata da Luis
Prima, con un americano approssimativo, come la lingua “ broukulina parlata dai nostri emigrati in America, o
come la leggiadria della lingua francese di Yves Montand. Un puzzle di ricordi,
di emozioni, stratificati nell’animo del grande artista. Al di sopra di tutto,
ciò che affascina di più e sempre di Enzo Moscato, nei suoi originali
spettacoli, è la parola, di cui è maestro. Una complessa struttura di intrecci
e citazioni, un’articolata architettura linguistica desunta dalle varie
invasioni subite dalla città e che affollano il linguaggio del testo. E poi le parole mormorate fiatate e ripetute
come in un eco immaginario e lo spettacolo s’imbuca in un coro da tragedia
greca. Ad unire tutto l’impianto
culturale, tutto questo mondo crudo e poetico, reso bellamente scenico da Enzo
Moscato, ripetuto più volte, come le parole recitate, per essere ben comprese,
il dolcissimo canto rievocativo di Franco Battiato, Prospettiva Nevski.
Improvvisamente, ognuno dei presenti, commossi e partecipi, sono entrati di
diritto nella creazione di Enzo Moscato.