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domenica 22 dicembre 2013

Gea Martire l’interprete di “Mulignane” al Teatro del Giullare di Salerno


Fonte:www.lapilli.eu
di Maria Serritiello

Ciò che disturba di “Mulignane”, il pezzo portato in scena da Gea Martire, al Teatro del Giullare di Salerno, il sette e l’otto dicembre scorso, è che la presa di coscienza della protagonista sia dovuta passare attraverso la brutalizzazione del proprio corpo.

Non avere un nome, in una storia, è già indice di nullità e nel caso della protagonista di “Mulignane”, è una certezza. La donna in questione è brutta ma proprio brutta assai, occhiali spessi, nessuna grazia, vestiti senza gusto, piena di malattie psicosomatiche e con l’aggravante che manca di un uomo al suo fianco. Ha un lavoro che non la soddisfa, per via della prepotenza e la non curanza del proprietario dell’agenzia pubblicitaria e di Carmela, l’altra impiegata. E’andata a vivere da sola in una casa per proprio conto, ma sua madre, avendo le chiavi, piomba e fiuta ogni traccia che potrebbe rivelarle la presenza di una relazione. Ha anche due amiche, Anna Maria e Olga, accasate, con le quali si vede ogni giovedì, quando si liberano dai mariti e con le quali parla, ovvero loro parlano di cucina, di figli, di faccende domestiche e di sesso, argomenti, i primi di nessun interesse per lei, dell’ultimo senza nessun riguardo per il suo stato di “zitella”, ma tant’è almeno il giovedì pratica uno straccio di vita sociale. Tutto è meglio di niente, perfino le “mulignane”, quei segni lividi sul suo corpo, comprensivi di altri  nell’anima. Quando appare nella sua vita Peppino, il commesso dei pacchi, tutto sembra capovolgersi, anche lei ha un uomo che però si rivela, di una volgarità estrema, dal sesso spinto, sadomaso e feticista, ma la sua esistenza  finalmente viene ad essere omologata a quella degli altri. I loro incontri sono una sequenza di vessazioni alle quali è costretta a sottostare, tra lacrime e insostenibili dolori, e per esaltare le voglie e l’eccitazione del mostro è costretta a dire “ Si, vatteme, famme male”. Capita però, che l’esercizio alla sofferenza, fortifica e i ruoli si ribaltano e le “mulignane” diventano ruoti di parmigiane bollenti per la vendetta finale, diversa dal solito che è un piatto servito freddo.

Gea Martire è l’assoluta, l’immensa interprete del monologo scritto da Francesca Prisco, per la regia di Antonio Capuano. La donna da lei caratterizzata è l’ennesima sua prova d’artista, sia per come l’interpreta e sia per come la presenta: occhiali fondo di bottiglia, calati sugli occhi, maglietta grigia su di una gonna longuette avion e capelli sciattamente tirati indietro, ritratto della perfetta zitella. Il monologo ha inizio dal giorno del suo compleanno, uno in più per sommarlo a tutti i suoi fallimenti ma soprattutto alla maledizione di non avere un uomo accanto, secondo cui la discriminazione di essere donna è doppia. Considerata poco più di un reietto, a cominciare dalle stesse del suo genere, per finire alla madre, si consegna vittima immolata, non salvaguardando nessuna parte di sé. Man mano che il racconto va avanti, sul viso e sul corpo di Gea, si attaccano con crudezza gli infelici stati d’animo della povera donna. La sua recitazione è così vera, da non sembrare tale, quando in cerca d’amore, quello romantico, non trova altro che sesso brutale. La sottomissione alle  voglie estreme dello zotico, prepotente e volgare Peppino  seguono la logica della poca considerazione  di se stessa, che mai nessuna una donna dovrebbe avere. Il prezzo da pagare per una passeggiata o per un incontro furtivo è alto e Gea, viso e corpo, ce lo mostra, mimando drammaticamente il sesso rude, sbrigativo e crudele, subito dall’infame. E così, come se  il rozzo grossolano  fosse in palcoscenico, per cui la voglia di massacrarlo è prepotente, la brutalizza, la prende da dietro, l’incatena, la picchia selvaggiamente e la lascia sfinita. In scena, Gea Martire, sul puf circolare, si contorce dal dolore, si leva a stento, le membra tutte un livido, una  sequenza quella dello stupro di un realismo così crudo, da scardinare l’animo di chi assiste. Un’interpretazione stupenda ed amara, dalla quale ogni donna non può che uscirne sconfitta, oltraggiata e svilita. Lo stato di soggezione in cui è caduta, nausea, prende alla gola e rende furibondi e se questa è la provocazione dell’autrice, tematica per altro non originale, è riuscita in pieno. I cambi di voce per rappresentare lui e i balbettamenti per l’insicurezza  di lei sono la conferma della bravura dell’attrice molto apprezzata dal pubblico del Giullare. Nella prima parte del testo, ci sono battute anche divertenti ma successivamente le risate si fanno amare e se c’è qualche risolino ammiccante in sala, non è certo dovuto a donne, l’inserimento  del dialetto di tanto in tanto, poi,  rendono efficace ed agevole il monologo. La gestualità, la mimica facciale e l’espressività del corpo, splendida la trasformazione finale di Gea alla “Gilda”, nell’abitino rosso avvitato e chioma leonina, sono uno splendido corollario alla sua interpretazione.  La scena arredata semplice è al buio, con un grosso puf  rosa al centro e un appendiabito a vista, dietro il quale Gea si veste e si spoglia nei veloci cambi d’abito.

Eccezionale, Gea, come sempre, come ogni volta nel rappresentare l’universo femminile.


Maria Serritiello
www.lapilli.eu



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