Quando si fondono i gusti in cucina, tra quelli del nord e quelli del sud, il risultato è eccellente.
L'Oresgnazza è il dolce del nord che è arrivato fino al mio palato, attraverso la bravura di Zia Mary.
Nella mia famiglia il nord, cioè Fiume, oggi Rieka, è stata una costante presenza, là ha vissuto la più bella giovinezza mia madre Bianca, là si è sposata, nel Duomo, mio padre Alfredo, andato apposta da Salerno a prendersela, per riportarla nella sua terra. Lei era nata, come tutta la sua famiglia, in provincia di Napoli, Casalnuovo, ma aveva vissuto parte della sua vita nella bella città mitleuropea. Sicché nella mia casa accanto agli struffoli, "o tortano bruscenato"i casatielli , i taralli e le pastiere, si sono sempre uniti strudel e palacinke. Ma veniamo "Oresgnazza " un dolce di una prelibatezza unica ad esclusivo appannaggio di Zia Mary, la moglie di Zio Carmine, il primo fratello dei 7 di mia madre, nata a Veglia, oggi Krk , nell'ex dalmazia..Proprio oggi è sulla mia tavola della vigilia, zia Mary, nonostante l'età, non ha fatto mancare la tradizione.
Per quanti volessero cimentarsi ecco la ricetta fotografata dagli appunti che la zia ha gelosamente conservati
Ciò che piace, ma proprio tanto, di Maurizio
de Giovanni, ad ogni suo incontro e quello del Giullare non fa eccezione, è
l’aria scanzonata con la quale approccia il pubblico, battuta pronta, dialogo
vivace e rispetto per chi gli sta di fronte. Un anti personaggio, senza le
fisse e le manie convulse di chi ha raggiunto il successo. Bravo.
Maurizio ha avuto l’ incontro fatale con la
scrittura da un tiro burlone dei suoi amici, i
quali, come dice spesso raccontandosi e quasi a scusarsi, lo iscrissero ad un concorso
per scrittori di gialli, considerata anche la sua passione per tale genere. Se
oggi, però, dopo il successo, Maurizio ha esigenza di comporre, per vizio
attaccatosi addosso, lo vuole fare nel modo più naturale possibile, mantenendo
intatta la sua vita, la sua passione per la squadra del Napoli, il suo amore
per la città, il suo modo di essere padre, marito, uomo del quartiere e
compagno dei suoi amici. Non due vite parallele, quella di scrittore e di uomo,
ma una sola, in cui ogni volta travasa un po’ dell’una nell’altra. Le sue
trame, infatti, non sono mai cronaca secca di uccisioni ma lo spunto per scrivere
della sua anima, delle sue passioni, racconti filtrati dai suoi occhi, dalla
sua psiche.
Con
questa premessa, all’appuntamento del venerdì “Incontro con la scrittura”, che
da quest’anno il Teatro del Giullare porta avanti con successo, si è presentato
Maurizio de Giovanni, per proporre la sua nuova creatura, “Buio”. Il clima è di
assoluta familiarità con il piccolo
teatro trasformato in un salotto, un po’ più allargato, nel quale, lo si
capisce subito, circola amicizia benevola. Si assiste e con vero piacere all’informale,
bene così, ma sostanziale presentazione del simpatico toscano, suo amico, Luca
Badiale e si ascolta rapiti la lettura di alcune pagine interpretate con trasporto da
Brunella Caputo, Davide Curzio, Cinzia Ugatti, Amelia Imparato, Caterina
Micoloni, Augusto Landi e Rocco Giannattasio.
“Batman, Batman”, irrompe la voce
inconfondibile di Davide Curzio per trasferirci nel buio pesto di Dado, il bambino rapito della trama.
(I
Bastardi di Pizzofalcone, guidati dal commissario Palma, vengono chiamati per
indagare su un nuovo caso difficile. La situazione è estremamente delicata,
perché riguarda il rapimento di un bambino. Lui ha otto anni ed è il figlio di
un imprenditore che gode di grande fama. Gli agenti Romano ed Aragona iniziano
ad indagare sulla vicenda, cercando di individuare elementi utili che possano
ricondurre all’autore del rapimento e alla conseguente liberazione del bambino.)
E
così il “Buio”, sottolineato dall’ottima scelta musicale di Virna Prescenzo ,
s’impossessa del teatro, un tutt ‘uno di respiri, di silenzio, di attenzione e desiderio di
penetrare fino in fondo i personaggi della trama. Maurizio ascolta sorpreso, meravigliato
egli stesso delle sue parole scritte,
gli attori, ebbene sì, hanno
trasformato, anche per lui, in magia, ciò che ha elaborato in solitudine.
E
quando le parole pregnanti di presentazione dell’ottimo Luca Badiali portano Maurizio e la nuova
avventura dei Bastardi di Pizzofalcone,i sei poliziotti che operano a Napoli, al centro della
scena, si capisce subito che la serata avrà una svolta confidenziale, perché
Maurizio ha esigenza di trasferire se stesso in persone che vede là di fronte. “La
nuova trama dei Bastardi di Pizzofalcone vede la sua genesi” dice “ perché ho
sempre avuto nel cuore di ripercorrere le orme di Ed McBain, famoso giallista e sceneggiatore americano, di
origine italiana, infatti era figlio di immigrati italiani originari
di Ruvo del Monte, Potenza. “Ed
McBain”, continua, “scrisse le storie dell’ottantasettesimo distretto,
capovolgendo la mappa di New York, per cui nelle storie entrarono i ceti
sociali meno abbienti, con la loro vita quotidiana. Un posto dove si può fare
la stessa operazione è Napoli, ed io l’unico, o altri giallisti napoletani, a
poterlo fare”. Ed ancora “io scrivo per immedesimazione non sono distaccato
come gli scrittori veri, per cui stare dietro alla storia del bambino rapito mi
ha comportato atroci sofferenze.” Con semplicità passa a parlare di sport che ha un solo nome, “Napoli” e di
come ha sistemato e con signorilità, tutta partenopea, il ruvido Matteo Salvini,
a proposito dei cori di sfottò. Luca Badiali lo riporta a parlare delle sue
trame e lui lo fa con piacere, ma non per autocelebrarsi ma perché parlare gli
piace come quando va dal barbiere o a passeggiare nel quartiere.
Scrivere
di Napoli, l’ambientazione dei suoi racconti, senza che la sua aria dolce ti
soffi sul viso, non è concepibile ed ecco la lettura di “Maggio” spargersi
intorno attraverso le dolcissime voci di Brunella Caputo, Cinzia Ugatti, Amelia
Imparato e Caterina Micoloni, unite a quelle più ruvide di Augusto Landi e Rocco
Giannattasio, mescolate al “Buio” e alla possente voce di Davide Curzio. Prima
che la serata abbia termine, Maurizio de Giovanni regala, quale prezioso dono,
la lettura di un toccante racconto. Due personaggi, l’amore infinito e il
distacco impossibile.
Grande
Maurizio, con le tue storie intense ed intimiste, scrivi anche per noi che non
sappiamo farlo, torna presto e raccontaci ancora.
Trova portafoglio con 5 mila euro e lo consegna al Sindaco per far si che vengano devoluti ai più poveri
Protagonista del nobile gesto, un operaio 56enne delle provincia di Vicenza
Un operaio 56enne di Lugo, in provincia di Vicenza, ha trovato per terra un portafoglio con 5 mila euro e lo ha consegnato al sindaco della città, in modo tale che l’amministrazione potesse ricavarne il premio per il ritrovamento e devolverlo ai più bisognosi.
Una storia in perfetto clima natalizio, accaduta venerdi scorso quando l’uomo, di ritorno a casa con il suo motorino, ha notato il portafoglio per terra:
“Mi sono fermato con la moto, l’ho raccolto e dentro c’erano 5 mila euro. Ero incredulo. Sul momento ho pensato di andare dai carabinieri. Poi mi sono detto che avrei potuto fare due regali di Natale, uno a chi ha perso il denaro, e un altro a chi è meno fortunato”
Ai giornali locali l’uomo ha dichiarato quindi di essersi recato in comune e di aver consegnato il portafoglio al vicesindaco pregandolo di informare la polizia:
“So che il Comune si impegna ad aiutare le persone bisognose Ricordandomi che per legge spetta il 5%, ho pensato che in un momento di crisi fosse giusto destinare il premio per il ritrovamento a chi è in difficoltà. A me non interessava la ricompensa, sono molto più felice di poter fare qualcosa di buono per la comunità e visto che leggiamo sempre di furti e truffe, ogni tanto può far piacere anche vedere un esempio positivo, soprattutto per i giovani.”
Ciò
che disturba di “Mulignane”, il pezzo portato in scena da Gea Martire, al
Teatro del Giullare di Salerno, il sette e l’otto dicembre scorso, è che la
presa di coscienza della protagonista sia dovuta passare attraverso la
brutalizzazione del proprio corpo.
Non
avere un nome, in una storia, è già indice di nullità e nel caso della
protagonista di “Mulignane”, è una certezza. La donna in questione è brutta ma
proprio brutta assai, occhiali spessi, nessuna grazia, vestiti senza gusto,
piena di malattie psicosomatiche e con l’aggravante che manca di un uomo al suo
fianco. Ha un lavoro che non la soddisfa, per via della prepotenza e la non
curanza del proprietario dell’agenzia pubblicitaria e di Carmela, l’altra
impiegata. E’andata a vivere da sola in una casa per proprio conto, ma sua
madre, avendo le chiavi, piomba e fiuta ogni traccia che potrebbe rivelarle la
presenza di una relazione. Ha anche due amiche, Anna Maria e Olga, accasate,
con le quali si vede ogni giovedì, quando si liberano dai mariti e con le quali
parla, ovvero loro parlano di cucina, di figli, di faccende domestiche e di
sesso, argomenti, i primi di nessun interesse per lei, dell’ultimo senza nessun
riguardo per il suo stato di “zitella”, ma tant’è almeno il giovedì pratica uno
straccio di vita sociale. Tutto è meglio di niente, perfino le “mulignane”,
quei segni lividi sul suo corpo, comprensivi di altri nell’anima. Quando appare nella sua vita
Peppino, il commesso dei pacchi, tutto sembra capovolgersi, anche lei ha un
uomo che però si rivela, di una volgarità estrema, dal sesso spinto, sadomaso e
feticista, ma la sua esistenza
finalmente viene ad essere omologata a quella degli altri. I loro
incontri sono una sequenza di vessazioni alle quali è costretta a sottostare,
tra lacrime e insostenibili dolori, e per esaltare le voglie e l’eccitazione
del mostro è costretta a dire “ Si, vatteme, famme male”. Capita però, che
l’esercizio alla sofferenza, fortifica e i ruoli si ribaltano e le “mulignane” diventano
ruoti di parmigiane bollenti per la vendetta finale, diversa dal solito che è
un piatto servito freddo.
Gea
Martire è l’assoluta, l’immensa interprete del monologo scritto da Francesca
Prisco, per la regia di Antonio Capuano. La donna da lei caratterizzata è
l’ennesima sua prova d’artista, sia per come l’interpreta e sia per come la presenta:
occhiali fondo di bottiglia, calati sugli occhi, maglietta grigia su di una
gonna longuette avion e capelli sciattamente tirati indietro, ritratto della
perfetta zitella. Il monologo ha inizio dal giorno del suo compleanno, uno in
più per sommarlo a tutti i suoi fallimenti ma soprattutto alla maledizione di
non avere un uomo accanto, secondo cui la discriminazione di essere donna è
doppia. Considerata poco più di un reietto, a cominciare dalle stesse del suo
genere, per finire alla madre, si consegna vittima immolata, non salvaguardando
nessuna parte di sé. Man mano che il racconto va avanti, sul viso e sul corpo
di Gea, si attaccano con crudezza gli infelici stati d’animo della povera donna.
La sua recitazione è così vera, da non sembrare tale, quando in cerca d’amore,
quello romantico, non trova altro che sesso brutale. La sottomissione alle voglie estreme dello zotico, prepotente e
volgare Peppino seguono la logica della
poca considerazione di se stessa, che
mai nessuna una donna dovrebbe avere. Il prezzo da pagare per una passeggiata o
per un incontro furtivo è alto e Gea, viso e corpo, ce lo mostra, mimando
drammaticamente il sesso rude, sbrigativo e crudele, subito dall’infame. E così,
come se il rozzo grossolano fosse in palcoscenico, per cui la voglia di
massacrarlo è prepotente, la brutalizza, la prende da dietro, l’incatena, la
picchia selvaggiamente e la lascia sfinita. In scena, Gea Martire, sul puf
circolare, si contorce dal dolore, si leva a stento, le membra tutte un livido,
una sequenza quella dello stupro di un
realismo così crudo, da scardinare l’animo di chi assiste. Un’interpretazione
stupenda ed amara, dalla quale ogni donna non può che uscirne sconfitta,
oltraggiata e svilita. Lo stato di soggezione in cui è caduta, nausea, prende
alla gola e rende furibondi e se questa è la provocazione dell’autrice,
tematica per altro non originale, è riuscita in pieno. I cambi di voce per
rappresentare lui e i balbettamenti per l’insicurezza di lei sono la conferma della bravura dell’attrice
molto apprezzata dal pubblico del Giullare. Nella prima parte del testo, ci
sono battute anche divertenti ma successivamente le risate si fanno amare e se
c’è qualche risolino ammiccante in sala, non è certo dovuto a donne, l’inserimento del dialetto di tanto in tanto, poi, rendono efficace ed agevole il monologo. La
gestualità, la mimica facciale e l’espressività del corpo, splendida la
trasformazione finale di Gea alla “Gilda”, nell’abitino rosso avvitato e chioma
leonina, sono uno splendido corollario alla sua interpretazione. La scena arredata semplice è al buio, con un
grosso puf rosa al centro e un
appendiabito a vista, dietro il quale Gea si veste e si spoglia nei veloci
cambi d’abito.
Eccezionale,
Gea, come sempre, come ogni volta nel rappresentare l’universo femminile.