Zelig Lab On The Road parte per il secondo anno consecutivo e come lo scorso anno, al Teatro Ridotto di Salerno, il luogo deputato della comicità. Il laboratorio, che andrà avanti fino alla fine di aprile, tende a formare, in modo professionale, il cast da mandare successivamente a Zelig di Milano. Salerno è l’unica città ospitante in tutto il Meridione, ma ce ne sono 9 spalmate sul territorio nazionale. Gianluca Tortora, direttore artistico della Rassegna “Che Comico” che si conferma di anno in anno con rilevante successo, è il fautore di questo importante laboratorio della comicità, strappato a Napoli e trasferitosi laddove è stato creato il riconoscimento più ambito, che è quello del “Premio Charlot”, 29 anni da compiere nel 2017.
Una carrellata di giovani aspiranti comici: Peppe Gallo, I su per giù, Michele Ventriglia, I Calabroni, Francesco Arno, Nicola Prudente e quelli già affermati Vincenzo Comunale ( Premio Charlot 2016), Gabriele Rega (finalista Premio Charlot 2016) Luca Bruno, Giovanni Perfetto, Andrea Monetta, presentati dal duo salernitano “I malgrado tutto”, disinvolti e padroni ormai della scena, ci prova, sostenuti, guidati e corretti dal talent scout Alessio Tagliento,umorista e autore televisivoitaliano, pendolare da Milano. Due ore circa di show, filate via in scioltezza ed in allegria, ravvivate di tanto in tanto dagli scketches di artisti, che novelli non sono più, sia perché da molto tempo calcano le scene di teatri regionali e nazionali e sia per aver partecipato alle trasmissioni dei media nazionali, come Salvatore Gisonna e Chicco Paglionico. Tra i nuovi animatori di questo laboratorio, divertenti sono i siparietti del sicuro di sé che si atteggia a vip ma che nessuno conosce, del depresso cronico alla disperata ricerca di un padre di riferimento, quello del ladro gentiluomo che si emoziona per la miseria altrui e quello del prete che ha abbondonato la spiritualità, in favore della vita comoda e materiale. Personaggi possibili alla ricerca di un monologo o di una battuta che dia loro visibilità e che li proietti in alto, spinti da una vis comica, se non proprio da inventare, di certo da vivificare e personalizzare. Anche quest'anno la valentia artistica di Tagliento e la serena disponibilità dei curatori del teatro, sapranno affinare l’energia e gli sforzi dei debuttanti.
L'oncologo aveva 91 anni. Una vita spesa a combattere il cancro con impegno e due parole d'ordine: ricerca e laicità. E poi le altre battaglie: quella per l'eutanasia, per la cultura scientifica, per l'alimentazione vegetariana
Umberto Veronesi, oncologo e uomo politico, è morto nella sua casa di Milano. Da alcune settimane le sue condizioni di salute si erano progressivamente aggravate. Era circondato dai familiari, la moglie e i figli
E' UNA FOTO in bianco e nero quella che Umberto Veronesi regalava di sé per raccontarsi. La periferia delle case popolari, prima della Milano industriale, ben lontana da quella da bere o dell'Expo. Dove lui abitava, venuto in città da una cascina nel Pavese. E a sentirlo raccontare pareva di vederlo, alto, sottile, bello e charmant come lo abbiamo potuto conoscere, guardare di lontano alla città che avrebbe, poi, per molti versi dominato e fatto diventare capitale della ricerca biomedica italiana, ma non solo. Perché non c'è dubbio che, tra le mille eredità di Umberto Veronesi, la più solida è quella di aver trasportato la medicina italiana fuori dalle secche spiritualiste vaticanocentriche, nella modernità. A partire dalla guerra al grande male, l'oncologia. Le altre battaglie - quella per l'eutanasia, per la cultura scientifica, per l'alimentazione vegetariana - discendono dalla sua visione del mondo, laica ed empirista, ma soprattutto dalla sua lunga frequentazione col cancro.
Veronesi era un chirurgo, e l'oncologia italiana nasce con lo sguardo limpido di chi è abituato a vedere ed estirpare. E' l'unica branca della nostra medicina che nasce "all'americana" grazie a lui (a Pietro Bucalossi e Gianni Bonadonna). Nasce e cresce attorno all'Istituto dei tumori di Milano, il vero tempio, da cui poi sono partiti i suoi allievi per diffondere il metodo in tutta Italia. Nasce col grande salto delle sperimentazioni degli anni Settanta del secolo scorso. A chi si chiede oggi perché mai gli americani vennero qui a sperimentare la cosiddetta terapia adiuvante per il carcinoma della mammella (la procedura di dare farmaci dopo l'intervento che ha salvato milioni di donne nel mondo) portando i loro dollari a Milano, gli storici danno una sola risposta plausibile: perché negli Usa i chirurghi non volevano farlo, non volevano condividere le pazienti coi chemioterapisti e tantomeno trattarle con quei farmaci così pesanti. In Italia, a Milano, gli americani trovarono un oncologo che lavorava come loro (Gianni Bonadonna), e un grande chirurgo che capì per primo al mondo che il cancro si combatte in equipe. E si vince con la ricerca.
Non fu solo quello a farne un uomo di ricerca, la chirurgia conservativa ("amo troppo le donne per vedere i seni straziati dall'amputazione", diceva), il linfonodo sentinella (che permette di prevedere l'andamento della malattia e comportarsi di conseguenza) sono le sue battaglie più eclatanti. Ma a farne l'Umberto Veronesi che tutti conosciamo è stata la visione politica della malattia. Nessun altro in Italia l'ha avuta.
Politica, nel senso nobile del termine, s'intende: l'idea forte di quello che serve alla medicina per servire i cittadini. Mentre la politica, quella dei palazzi, l'ha ascoltato sempre, omaggiato molto, seguito assai poco. A partire dal disinteresse reiteirato per il messaggio più indelebile di Veronesi: ricerca, ricerca, ricerca. Fece suo lo slogan: si cura meglio dove si fa ricerca; lo trasformò in realtà all'Istituto dei tumori di Milano, prima, e allo Ieo, dopo. Ne ha fatto l'imprinting dei grandi ospedali più avanzati dei paese.
Si è battuto per la creazione degli Irrcs, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ma poi ha visto con amarezza che l'idea degli ospedali di ricerca è diventata uno strumento di consenso per la politica che li ha distribuiti a pioggia senza mai verificare che fossero davvero di ricerca ."Lasciamo stare", ci ha detto l'ultima volta che lo abbiamo interrogato in materia. Poi, come sempre accadeva con Veronesi, la delusione ha lasciato spazio all'inossidabile fiducia nel futuro: "Oggi comunque bisogna ragionare globalmente. La ricerca è internazionale".
Si è battuto per convincere la politica che la ricerca pubblica è una priorità, perché senza sono le aziende a fare il bello e il cattivo tempo. L'ha ripetuto per decenni, ci ha provato da grande mentore dei Piani finalizzati del Cnr, che a poco hanno portato, assistendo per una volta impotente alla china. A Big Pharma che decide cosa curare sulla base delle molecole che ha scoperto, e come curarci sulla base dei fatturati possibili. Questo non gli piaceva, e non dovrebbe piacere nemmeno a noi. Noi che oggi siamo orfani. E domani saremo disorientati. L'opinione pubblica dovrà abituarsi a pensare da sola i grandi temi della medicina, del suo futuro, della nostra battaglia con la malattia e la morte.
Potremo sempre però contare sulla sua visione, ricordarci le parole d'ordine: ricerca e laicità. E soprattutto potremo sempre ricordarci la sua lezione profonda: la medicina
non è uno strumento senza colore. Non è una tecnologia. E' invece uno strumento di crescita collettiva, di progresso; ed è un grande esperimento di solidarietà. E' il terreno dove la scienza migliore si coniuga con l'obiettivo più nobile.
Qualche tempo fa, su Fb, mi sono ritrovata la richiesta di amicizia da parte di Maria ( ometto il cognome). Certamente, mi sono detta, era stata una mia alunna, ma non me la ricordavo. Strano, perché tutti i miei allievi e ne sono stati tanti, non solo me li ricordo, ma ne sento ancora la voce nelle orecchie. Sicché le scrissi:
Ciao Maria, volevo chiederti se sei stata una mia alunna,
intanto ti saluto e ti ringrazio per la richiesta d'amicizia La sua risposta è la più bella medaglia che si possa appuntare al petto di un'insegnante, per i suoi 42 anni di servizio.
Per me è un piacere ritrovarla Grazie a lei Non sono stata
sua alunna questo a dimostrazione che lei era per noi ragazzi di Sant'Angelo le
fratte più di una una semplice insegnante Lei non era una semplice insegnante
Era l'idea dell'innovazione della scuola Con tutte le sue iniziative ha portato
una speranza di vita in un paesino dove l'unico svago era la scuola Tutti noi ,
ormai che hanno varcato la soglia dei 50 anni la ricordiamo con affetto Lei ha
dato a tutti la possibilità di sognare!!!! Non potevamo dimenticarla!!! Un
grazie e un abbraccio da tutti
Ecco, non potevo non annotare qui, nel mio blog, lo scritto che mi ha commossa tanto, da non volere perdere la traccia.
Grazie piccola alunna, ormai donna, ti abbraccio e ti porto nel ricordo più bello della mia professione.
Anche questo è facebook e a saperlo usare non solo gratifica ma non interrompe il filo d'Arianna con i tuoi ragazzi.
E’ in corso di svolgimento il Salerno Festival, rassegna di cori nazionali ed internazionali, giunto alla settima edizione. La Kermesse, che rende la città festosa ed echeggiante di poderoso e bel canto, andrà avanti fino al prossimo 6 novembre ed ha avuto inizio ieri, con una maratona di 9 cori in canto, al Grand Hotel Salerno, gremito di folla. Le esibizioni, 30 concerti in tutto, sono spalmate sull’intero territorio regionale, tra cui Napoli, Pompei, Ravello ed Atrani e sono ad ingresso gratuito. Il maggior numero delle esibizioni sono destinate alla città di Salerno che ne ospita il festival e questi in sintesi i numeri della melodiosa rassegna: 42 i cori, 1300 aderenti, 17 le regioni rappresentate, 24 i cori della Campania e 400 i partecipanti solo dalla provincia di Salerno, oltre 50 gli organizzatori, i volontari e gli accompagnatori. La manifestazione, per la sua capacità di mettere in campo formazioni di notevole caratura professionale, si avvia ad essere internazionale e già da quest’anno si registra la partecipazione di un coro venuto dalla lontana Bielorussia. Due novità di pregio all’interno del Festival, la presenza eccezionale di due cori, l’ Odhecaton, diretto da Paolo Da Col, uno dei gruppi professionali italiani più conosciuti a livello internazionale e specializzato nel repertorio Rinascimentale e l’UT Insieme Vocale-Consonante, diretto da Lorenzo Donati, vincitore dell’European Grand Prix for Choral Singing 2016 e nato dal progetto Coro Giovanile Italiano. Il repertorio eseguito nei 30 concerti va dalla polifonia sacra e profana, alla melodia pop italiana ed internazionale, dal gospel all’opera lirica. Molto divertente, per il clima festoso che s’instaura tra la gente, è la performance “Frijenn Cantann in città”, ovvero il canto libero dei coristi, che anche quest’anno sarà riproposto, visto il successo delle passate edizioni.
La prestazione musicale “Frijenn Cantann”, il 5 novembre, verrà eseguita in vari spazi, di diversa natura, come negozi, case private, ostelli, chiese, cantando liberamente ed improvvisando al motto di “Liberiamo il canto”.
“La Cantatrice Calva” di
Eugéne Ionesco, un pezzo di non facile presa sul pubblico, è stato
rappresentato dalla Compagnia In-Stabile,
all’interno della rassegna “Teatri…Amo Salerno”, prima edizione, presso “Il Nostro Teatro” dell’I.C. San Tommaso
D’Aquino del rione Fratte. Un’interessante iniziativa resa possibile grazie
alla ristrutturazione di un’area della scuola e dalla collaborazione della
Dirigente scolastica, prof.ssa Annalisa
Frigenti e Roberto Finamore,
presidente del teatro In- Stabile. La rassegna è nata al fine di utilizzare costruttivamente
il nuovo spazio ed ha avuto inizio sabato 29 ottobre, per concludersi l’11 dicembre
prossimo. Sette appuntamenti nei quali il teatro diventa polo culturale e
traghettatore di un quartiere a vocazione operaia, cresciuto attorno alle
Fonderie e alle Cotoniere Manifatture Meridionali. La pièce prediletta per il
debutto la dice lunga sulle intenzioni di questo gruppo di giovani attori, che
vuole far cultura e diffonderla, perché crede in essa come unico strumento di
elevazione. La scelta, poi, di utilizzare la scuola, a contenitore di
performance è degna di lode. Tutti gli istituti scolastici dovrebbero, nei vari
quartieri, essere capofila e attrattori formativi, una sorta di suonatori di
flauto magico, per attirare e avviare, nelle spire dell’etica e dell’estetica
quanta più umanità possibile, e rendere reale, presso le giovani generazioni, “la
buona scuola” Lode, allora, all’iniziativa, per chi l’ha proposta e per chi
l’ha favorita.
La Cantatrice Calva è la
parodia di una commedia, definita dallo stesso autore “anti commedia” ed è il
primo esempio di un genere teatrale chiamato “teatro dell’assurdo”, dove si utilizzano
frasi fatte, dialoghi contrastanti, luoghi comuni e strisciante razzismo. I
personaggi sono sei e ad inizio di rappresentazione, in scena seduti in un
ideale salotto inglese, ci sono i coniugi Smith, lui legge il giornale, lei rammenda
una calza. Non parlano tra di loro, il silenzio, di ben 15 minuti, cala dal
palcoscenico sul pubblico, che interdetto non sa che cosa pensare. A rompere la
fissità della situazione è la Signora Smith, che prende a ripetere più volte il
menu della loro cena, mentre il marito senza alzare gli occhi dalle notizie,
esprime commenti sui medici, sullo stato britannico e sull’esercito. Appare la
cameriera Mary per annunciare la visita dei coniugi Martin, mentre i padroni di
casa vanno a vestirsi. Questi si accomodano ed iniziano a comportarsi come dei
perfetti sconosciuti. Le due coppie, alfine, si ricongiungono ed iniziano a
parlare in modo sconnesso e senza un filo logico, quando bussano alla porta più
volte. Al di là di essa, però, non c’è persona, sicché la Sig.ra Smith si
convince che al suono del campanello non vi debba essere mai nessuno. Alla
porta, intanto, compare il capitano dei pompieri, alla ricerca spasmodica di un
fuoco da spegnere. I sei personaggi cominciano a parlare, a raccontare
barzellette, episodi ed a sbraitare, emettendo suoni senza senso. Si spengono
le luci ed in scena, ora, si sistemano i signori Martin al posto degli Smith e
tutto ricomincia daccapo. Nel salotto inglese rappresentato, una grande
importanza è riservata agli orologi, atti a scandire il tempo sempre uguale,
con rintocchi che cambiano ogni volta. Un’assenza eccellente, poi, brilla ed è
quella della Cantatrice Calva, la quale pur dando il titolo alla pièce non
compare mai se non nella domanda del pompiere “A proposito e la Cantatrice
Calva? “Si pettina sempre allo stesso modo” è la risposta data.
Tutti e sei gli attori
sono stati molto bravi ed attenti nelle singole caratterizzazioni, come disinvolti
nel mantenere la scena. La fedeltà del testo, poi, sia pure con un tratto
personale, è stato l’elemento di distinzione della regia praticata da una
talentuosa Emanuela Tondini, nella
duplice veste di regista e di attrice, a lei, infatti, si deve la modellata
Sig.ra Smith. Perfetto nella parte del borghese inglese, è Roberto Finamore, non una sbavatura nella recitazione, anzi fin
troppo preciso nel mimare gesti, dallo sfoglio del giornale al fumare della
pipa. Vincenzo Triggiano e Francesca Canale,
rispettivamente il signore e la signora Martin, hanno fatto il paio con i
signori Smith, brillanti, ciarlieri e con i toni giusti. Molto espressiva è, Lucia Finamore, nel ritagliarsi in
maniera completa il personaggio della cameriera. Infine il capo dei pompieri, Antonello Cianciulli è stato il
tassello che ha completato in modo equilibrato il puzzle della recitazione. Il
momento clou della bravura di tutti e sei è da ritenersi quando tutti insieme,
ma ognuno per proprio conto, attaccano a parlare forsennatamente
sovrapponendosi l’uno sull’altro e rendendo incomprensibile, ancor più, il
discorso. In tutti è stata visibile la
sana passione per l’arte e ciò li ha resi belli e bravi. Un debutto migliore,
per la Compagnia Teatro In-Satbile, non poteva esserci, essendosi testati con
un’opera che alla sua prima apparizione, nel 1950, fu stroncata dalla critica e
dal pubblico. La via difficile di un testo non popolare li rende meritevoli e
ci spinge ad incoraggiarli a continuare, proprio in un quartiere, quello di
Fratte, che a saperlo leggere meglio ha potenzialità non indifferenti, non
fosse altro per la bellissima chiesa, proprio adiacente al teatro, della “Sacra
famiglia”, costruita nel 1974 da Paolo Portoghesi, l’ottantaquattrenne architetto
romano. E non è tutto, altra firma eccellente di fama mondiale, l’archistar
Massimiliano Fuksas, ha lavorato per la riqualificazione del territorio, con
due interventi: Eden Park ed il Centro Commerciale, in via di ultimazione
laddove un tempo le Cotoniere. Infine Fratte ha un patrimonio archeologico unico
al mondo “La Necropoli Etrusca” con la quale convive senza darle importanza,
ecco bisogna cominciare di là per un discorso culturale serio ed il teatro e
questi giovani di talento possono.
Ha un buon inizio “Che Comico 2016-2017” al Teatro Ridotto di Salerno, conclamato
tempio della comicità, con la performance di Mino Abbacuccio, vincitore del
Premio Charlot 2010 e comico di successo in tutte le edizioni di Made in Sud. Il giovane artista
campano, trentun anni di età, era già stato al Ridotto nel 2011, alla sua prima
esibizione d’inizio di carriera. Quando appare in scena, alto, abbigliato in
modo informale, con maglia e pantalone nero e dopo aver ringraziato la famiglia
Tortora che ha dato l’incipit al suo
successo, attacca disinvolto un monologo nel quale rientrano temi giornalieri e
per questo apprezzati da tutti, di cui le mamme invasive, i padri vittime della
tirannia femminile, le fidanzate gelose, i call center, le zanzare. Un panorama
in chiave umoristica della società attuale, ma molto veritiera. Divertente la
nuova figura del “Tatuatore” da lui interpretata e che succede al timido
giovanotto bistrattato dalla famiglia, in particolare dalla madre, che lo
costringe ad apparire con una coniglietta tra le mani per farsi coraggio. “Nessuno mi vuole e saluta Tittì” il
tormentone dei suoi monologhi, sostituito dall’attuale “Se non sbaglio nu sbaglio ma se sbaglio, sbaglio” dell’arguto
tatuatore. Un mantra che ormai fa parte
del lessico giovanile e che si ripete simpaticamente anche presso chi giovane
non lo è più. La comicità di Abbacuccio è attenta, scrupolosa, porta in
semplicità da lui che ha tutta l’aria perbene del giovane della porta accanto.
Le sue uscite sono fresche, quasi mai scontate, né banali o peggio ancora
volgari, le gags sussurrate e non gridate, suscitano un sorriso riflessivo, ma
non per questo meno accettato. La risata, poi, non è mai estorta, anzi è tranquilla
e poco invasiva. Una serata, quella trascorsa al Ridotto, passata in compagnia
di persone pacate, con un comico sereno e gentile che ha condotto l'inizio
della stagione teatrale, con tatto e delicatezza, senza sguaiataggine, ne'
ferocia. Tutto ciò può apparire riduttivo, ma così non è, forse corre il
rischio solo di essere calpestata da troppa volgarità inutile, laddove andrebbe
catalogata tra merce rara.
L’
Intervista
Cinque
anni fa hai debuttato proprio in questo teatro, che effetto ti fa esserci ritornato?
Ho provato un piacere enorme a tornare e ad
avere strumenti diversi da come potevo averli all’inizio. La prima volta era
una situazione forzata, ero al Ridotto perché avevo vinto il Premio Charlot, ma
non mi sentivo pronto, tanto è vero che lavorai molto a prepararmi, per
affrontare al meglio il pubblico del piccolo teatro, vero tempio della
comicità. In sostanza non volevo deludere chi aveva avuto fiducia in me.
Ne
hai fatta di strada, tutte le edizioni di “Made in sud”, quanto l’esperienza ti
ha fatto crescere professionalmente?
L’esperienza
di Made in Sud è stata molto importante, mi ha dato la possibilità di
migliorare le capacità e fornirmi di tecniche che all’inizio non possedevo. Con
venti puntate all’anno si deve essere, per forza, preparati a scrivere un pezzo
ogni settimana e che sappia anche far ridere. Tutto è all’insegno della
velocità, ma ciò, però, rafforza.
Da
dove trai spunto per i tuoi monologhi?
Dal
quotidiano e ciò che mi succedo intorno, basta osservare attentamente la gente
che ti passa accanto.
Che
fine ha fatto “Tittì” ora che sei il “Tatuatore” che spesso sbaglia?
Dopo
tanti anni di Tittì ho cercato un altro personaggio per non stancare il
pubblico e perché ne avesse nostalgia. Io sono molto legato a Tittì, è stata la
coniglietta a farmi conoscere al grande pubblico ma dovevo trovare un altro
personaggio o non avrei più partecipato a Made in Sud, per mia stessa volontà.
Così mi sono testato e ci sono riuscito, il personaggio funziona e diverte.
Prima di concludere la
chiacchierata, Mino Abbacuccio ha tenuto a sottolineare il piacere di aver
rincontrato la scrivente, che 5 anni fa lo ha recensito al suo debutto, in
maniera lodevole. Era la prima volta e lui ne ha conservato intatto il ricordo.
Maria Serritiello
Mino
Abbacuccio si è aggiudicato il premio " Vado al
Massimo" intitolato a Massimo Troisi e inserito nel circuito "Bravo Grazie!"
la Champions League della comicità. Grazie alla sua verve e alla sua simpatia,
il giovane campano ha fatto incetta di premi, portando a casa anche il premio
della critica e quello del pubblico. Vado al Massimo ha segnato l'ultima serata
della manifestazione E...state a Pignola, giunta alla XX edizione e curata
dall'associazione culturale Il Focolare. Abbacuccio ha vinto anche il Premio
d'Arte Umoristica nel 2007 e il Premi Otto Volante nell'ambito del premio
Massimo Troisi 2009 e il 2010 il Premio Charlot