70 minuti di gradevole
spettacolo, ultimo dei sette presentati in concorso alla16esima edizione dell’XS
città Salerno. Una commedia brillante, di quelle concertate per far sorridere e
divertire il pubblico presente in sala, con battute a raffica, intrecci
divertenti e situazioni paradossali. La scena è semplicemente addobbata: due
sedie ricoperte da un lenzuolo bianco, sotto cui sono amorevolmente sistemati i
due protagonisti, come in un letto- alcova: Isabella e Martino. Si amano alla
follia, si giurano amore eterno ed a vederli così uniti, sembra proprio di sì.
Sono sposati da sei anni e nessuna nube li ha turbati. Il divenire della storia
amorosa è presentato per quadri e da stacchetti musicali “C’eravamo tanto amati”,
canta il coro, il che lascia presagire che qualcosa tra i due cambierà. Ed
infatti, nel secondo quadro troviamo l’amorosa coppia intenta a dividersi i
beni materiali del loro appartamento ed anche l’abitazione, è nel conto, perché
sono in odore di divorzio. Le gag rappresentate tra i due, sono ricordevoli di
quei divertenti film americani degli anni ’70, dove una strepitosa Doris
Day ed un fascinoso Gary Grant, nel “Visone sulla pelle” giocano
con l’amore nell’intento di prendersi e lasciare, ma poi prendersi per sempre,
come faranno i nostri Martino ed Isabella. I due attori: Ariele Manfrini e
Aronne Noriller sono stati davvero molto bravi a caratterizzare la coppia e
sue sfaccettature. Settanta minuti o poco più a sostenere il ritmo della
rappresentazione, con strilletti, sorrisini, e cambiamenti d’umore, lei,
abbondante ironia, sarcasmo e affezione lui. Sicché tutto inutile per Isabella
e Martino agganciare altre storie, i nuovi partners non sono altro che copie
sbiadite di loro due a confronto. Divertenti e perfettamente caratterizzati
sono i quadri dove s’incontrano con i rispettivi e nuovi amori ed il Natale a
casa dei genitori di Isabella, allo scuro del loro divorzio. Così, resosi conto
che stanno ancora bene insieme, s’incontrano di nascosto per un rendez-vous
amoroso, naturalmente come nelle migliori pochade, i partener fiatano sul collo
dei due amanti e li scovano, per cui sono costretti a cercare stratagemmi, coinvolgendo,
perfino, l’ignara Maria, la colf di servizio, in un innamoramento salva
situazione. Ultimo quadro, i due sono in fuga con la macchina di Isabella, che
guida malissimo come sempre e di più, data la situazione e poco ci vuole a
ritrovarsi all’altro mondo. Staranno insieme per sempre, dopo aver sistemato le
cose con il Signore Iddio e forse era proprio questo il loro più ardente
desiderio.
La commedia, una
commistura brillante, regala uno sguardo leggero ma profondamente umano sulla
difficoltà dei sentimenti e le dinamiche che la vita di coppia affronta, giorno
dopo giorno. Momenti comici, dialoghi vivaci, personaggi che si moltiplicano,
situazioni surreali hanno dato una piacevole effervescenza alla
rappresentazione. La vita di coppia è stata rappresentata con varie
sfaccettature tra l’amorevole e il disincanto, un divertissement che ci è
proprio tanto piaciuto.
Maria Serritiello
Compagnia di Lizzana
Paolo Manfrini
Testo e Regia di Roberto
Marafante
Personaggi e Interpreti:
Isabella- Ariele Manfrini. Martino-Aronne Noriller
Due spettacoli in
compagnia di Santino Caravella, “Ridiamoci su” il 22 ed il 23 Marzo, al
Teatro Ridotto di Salerno, alla ripresa delle esibizioni, che hanno subito una
battuta d’arresto, nel mese scorso, per giustificati motivi di alcuni dei
comici partecipanti. Da adesso e fino a fine aprile, ogni fine settimana ci saranno
in scena, cambiando teatro, com’è consuetudine: Sergio Rubini, Barbara
Foria, Anna Mazzamauro e Peppe Iodice, al Delle Arti.
Ho conosciuto Santino
Caravella al Teatro Ridotto, per la prima volta (N.D.R.) nell’anno 2012,
lo stesso della sua partecipazione al PremioCharlot e della sua
vittoria all’ambito premio. Averlo ritrovato dopo tutti questi anni è stata un
felice rincontrarsi soddisfatti entrambi che nessuno dei due aveva dimenticato
l’altro.
Ed eccolo in scena, poca
la differenza dei 13 anni trascorsi, con il suo completo nero, nera anche la t-shirt
che gli dà aria seriosa, un po' emozionato ma anche desideroso di entrare
velocemente in sintonia con il pubblico e per quasi due ore prova a divertire,
con semplicità e l’onestà del mestiere. La sua, e si capisce subito, è una
comicità familiare, sia perché diverte usando la sua di famiglia con difetti e
virtù, sia per l’aria confidenziale con la quale approccia il pubblico. Così
entrano nel suo monologo le differenze abissali tra uomini e donne, dove il
maschio è sempre indietro, nella comprensione di ogni cosa, alla donna e questa
diversità naturale viene esaltata, non per piaggeria, ma perché è un dato di
fatto accertato. Un esempio per tutti: Se va a fare la spesa l’uomo, diciamo
pure Santino, si confonde, non ricorda ciò che deve comprare, chiama disperato
la moglie, anche perché ha sbagliato negozio e ha bisogno di una dritta per
tornare a casa. Non c’è niente da fare l’uomo è fatto così, evapora le azioni
da compiere, ma non lo fa per cattiveria, è la sua natura. Quando ha deciso,
veramente l’iniziativa è della fidanzata, di sposarsi è stato uno dei momenti
più faticosi della sua vita. Scegliere il luogo della cerimonia, il menù, il
vestito da sposa, l’abito dello sposo, i fiori, gli inviti, le bomboniere, il
viaggio, non è stato uno scherzo se a seguito c’era la suocera, l’amica, la
madre e la sposa, un turbinio di parole senza che lui, escluso da ogni
discorso, potesse dire una benché minima parola. E una volta sposati, le cose
non vanno meglio, il ménage familiare, con l’aggiunta dei figli è sempre più
impegnativo e costoso e rimpiangere “mammà” diventa automatico.
Così la vita quotidiana
di Santino è raccontata con un umorismo vivace e capacità di coinvolgere il
pubblico, la sua comicità è caratterizzata da un mix d’ironia e sarcasmo. Il
monologo semplice è spesso caratterizzato da battute dirette, situazioni
quotidiane e riflessioni considerevoli che possono far ridere senza
complicazioni e senza riferimenti culturali complicati. Il suo mantra del
passato diceva “Sto messo male, ma proprio male, male” e lo ripeteva con
paurosa insistenza, preoccupato del futuro; dopo 13 anni al Ridotto può
sollevarsi da questa visione negativa, ha casa propria, una bella moglie, due
figli intelligenti e sani, il pubblico che non l’ha dimenticato e l’apprezza e
un ristorante che se ci si ritrova in quel di San Giovanni Rotondo, dopo una
sentita e riverente preghiera per San Padre Pio, è possibile anche incontrarsi.
Ciò che non è dispiaciuto,
in questa tornata di spettacoli, concentrati per la maggior parte nel mese di marzo,
è che si è fatta la conoscenza di nuove compagnie, nuovi volti, nuove forme di
spettacolo (musical e pantomima) per esempio. Le scelte, presentate all’attento
pubblico, sono state molto apprezzate, dando colore e calore all’XS, una
manifestazione la più nota in Italia per quel che riguarda il teatro
amatoriale.
Romanzo Breve di R.
Ranzato, C. Corò e C. Maffia è l’incontro tra Felice, scrittore taciturno e
sistematico e Dalila una donna l’opposto contrario. Sfrattata dalla sua casa,
perché troppo rumorosa, Dalila si catapulta, letteralmente, nell’appartamento
del povero Felice, senza che lui riesca a difendersi dall’invasione della
donna.Tra i due è poco più di una
guerra nel dividersi gli spazi, nell’imporre il silenzio, nel disegnare a terra
i confini del movimento, nel dare l’orario della sveglia mattutina. Tutte
azioni impensabili per l’esuberanza mal contenuta di Dalila, ma Felice oppone
una strenua resistenza, che col passar dei giorni, però, si fa sempre più
debole, fino a diventare assurdamente piacevole la condivisione della vita a
due. E così lui scrive, lei rassetta, lui aggiusta, lei lava, lui asciuga e lei
esce per la spesa, una coppia affiatata, due persone che hanno voglia di stare
insieme. Sparite le schermaglie iniziali, ora sono amorevoli, affettuosi e
teneri, fissano le stelle, nelle notti schiarate, si guardano negli occhi e
fanno l’amore. E’ la semplicità della vita quotidiana, quella che per essere
felici trasforma l’usuale in straordinario.
Le relazioni amorose,
però, nella routine giornaliera possono trasformarsi, assumendo un mesto andare
avanti ed è quello che succede alla nostra coppia, fino a quando lei, non
potendone più della scialba vita, se ne va. Felice cerca di riprendere in mano
la sua vita, di ripristinare l’ordine sistematico di prima, quando le giornate giravano
tutte intorno a se stesso, perfino il silenzio, tanto auspicato, gli sembra
inutile e superfluo il bagno tutto per sé, unitamente alla cucina vuota, come
del resto tutta la casa. Le giornate scorrono lente e la scrittura è ferma al
giorno in cui Dalila se n’è andata. Il finale ci darà soddisfazione torneranno
insieme, la crisi viene superata nel costatare che ogni bene col tempo si
trasforma, diventando altro, perché altro si diventa nell’affettività e non è
un male, se si ha cura di conservare ciò che si è costruito insieme.
La storia di per sé
semplice è resa eccezionale dal modo di rappresentarla. In scena troviamo due
giganti, la loro bravura è tanta che lascia ammirati. Si muovono in maniera
concitata con una successione di gesti e di atteggiamenti caricaturali, dove la
parola viene messa all’angolo per privilegiare i movimenti del corpo e
dall’espressione del volto. La scena è scarna ed è fatta di squadre sottili, di
scatole, di due sedie, tutto materiale di legno che prende forma man mano che
la storia va avanti in 80 minuti circa. Sicché i vari pezzi congiunti, a volta
sono porte divisorie, nel momento della prima conoscenza, poi sono unite,
quando è l’amore a vincere. Una scena spoglia sì, ma affollata dai loro gesti,
dai loro larghi movimenti, da espressività convinta. Felice più di Dalila, un
vero acrobata, nel muoversi molleggiando sulle gambe e nel districarsi tra le
cassette di legno sparse, inciampa scenicamente molte volte, senza mai cadere
rovinosamente. Rimane impresso il rumore del suo tastare sulla macchina da
scrivere, anch’essa un pezzo di legno, che è dato dal suo schioccare la lingua
tra le labbra, un ticchettio perfetto, unico, ricordevole.
E poi c’è Dalila
paffutella in volto, un concentrato di mossette graziose, di bronci, una
raccolta di felicità e di dispiacere, di movimenti appropriati e di passi
ballati su musica allegra come il Charleston. I suoi gesti sono espressività
armonica, mai un fuori posto, mai un’eccedenza, tutto rientra nel voler
rappresentare il quotidiano di una coppia, una delle tante, senza la
straordinarietà e la rarità, ma solo in modo diverso e dunque, l’uno corollario
dell’altro, bravi artisti entrambi.
Infine il loro teatro in
movimento, per questo più difficile, affidato quasi esclusivamente alla mimica,
senza che il fascino delle parole faccia il resto, ci ha riportato alle comiche
in bianco e nero, a miti come Charlot, Stanlio e Ollio, con tutta la loro
trascinante allegria.
“Romanzo Breve” ci regala
una storia poetica e delicata nella pur semplice quotidianità, lasciando spazio
all’imprevisto e alla capacità di rompere la monotonia. Nessuno vuole starsene
da solo meno che mai Felice e Dalila
Maria Serritiello
“Romanzo Breve”
Commedia romantica in
pantomima musicale
di Romina Ranzato,
Cristian Corò e Cristina Maffia
Ci saluta e per sempre Pietro Genuardi, per tutti dal 2019 "Armando" del "Il Paradiso delle Signore", personaggio il più stabile, il più equilibrato, il più sensibile, il più disponibile verso tutti, insomma niente a che fare con gli intrighi, le gelosie, e le cattiverie di alcuni protagonisti della soap, che pur la fanno andare avanti, ogni giorno dal lunedì al venerdì con un milione e 347.000 milaspettatori e con il 17,3% di share di preferenze.Un successo inimmaginabile, nella fascia pomeridiana, dove su tutti mille canal, (sig!!!) si trovano vendite di poltrone con rotelle, di piatti, di pentole e di corredi per le giovani in odore di matrimonio, il tutto spinto nelle nostre orecchie da una voce sgraziata di un vecchio imbonitore, come si usava nei mercati dei paesi. Un successo, dunque, per la rete ammiraglia che non si è saputa regolare alla scomparsa di un attore, che ha ben tirata la carretta per il successo di Rai 1. Bastava che sospendesse la puntata di venerdì in segno di lutto e la bella figura la faceva a buon prezzo...ma poi la pubblicità!!!!
E manco mi sta bene la commozione di Caterina Balivo nel ricordarlo nel suo programma "La volta Buona" che già nel titolo ha un che di blasfemo, o no?
Insomma come si dice da noi "i morti con i morti e i vivi con i vivi" CHE TRISTEZZA
HO SENTITO IL BISOGNO DI RICORDARLO NEL MIO BLOG
CIAO ARMANDO
Maria Serritiello
Pietro Antonio Genuardi (Milano, 26 maggio 1962 – Roma, 14 marzo 2025) è stato un attore italiano, conseguì il diploma presso la scuola del Piccolo Teatro di Milano nel 1987. La sua carriera ebbe inizio accanto a registi italiani tra i quali Massimo Castri e Beppe Navello; nel 1995 interpretò il ruolo di Giulio Ricordi nella miniserie televisiva La famiglia Ricordi, diretta da Mauro Bolognini. Si dedicò anche al teatro, non solo come attore, ma anche come autore e regista di numerose opere. Numerosi furono i suoi ruoli cinematografici, tra cui quelli nei film Crack (1991), Dellamorte Dellamore (1994), Bastardi (2007) e il più recente Brave ragazze (2019). Anche sul piccolo schermo si distinse con numerose interpretazioni. Il pubblico italiano lo ricorda in particolare per il ruolo di Michele Nanni nella soap Vivere, ma soprattutto per quello di Ivan Bettini in CentoVetrine, personaggio che interpretò per tredici anni, dal 2001 al 2014. Nel 2019 entrò nel cast della soap di Rai1Il paradiso delle signore, dove vestì i panni del capo-magazziniere Armando Ferraris. L'anno successivo iniziò le riprese del film Viaggio a sorpresa (Surprise Trip), per il quale, oltre a recitare, curò il soggetto e la sceneggiatura insieme a Ronn Moss. Partecipò inoltre alla serie italiana di Netflix, Baby (serie televisiva).
Il mare sciaborda e
salsedine e freschezza si attaccano al corpo, il garrito rauco del gabbiano
volteggia e sfiora la testa, in lontananza una sirena lancia richiami e la nave
Virginian s’avvicina al porto, Questo l’inizio, attraverso i sensi, di Novecento,
il monologo teatrale scritto da Alessandro Baricco, nel 1994 per
Eugenio Allegri. D’allora in poi il racconto è uno dei pezzi teatrali, il
più sublime, un tempo narrativo veloce, comprensibile e particolare
La scena è scarna,
solida, di legno al naturale, con una serie di piccoli scanni sparsi, che di
volta in volta rappresentano sagome di personaggi raccontati, due sacchi di
iuta ed una lanterna completano l’immagine fissa.
“Succedeva sempre che a
un certo punto uno alzava la testa... e la vedeva. È una cosa difficile da
capire. Voglio dire... Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi
in viaggio, emigranti, e gente strana, e noi... Eppure c'era sempre uno, uno
solo, uno che per primo... la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o
passeggiando, semplicemente, sul ponte... magari era lì che si stava
aggiustando i pantaloni... alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso
il mare... e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov'era, gli partiva il cuore
a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di
noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l'America”.
L’incipit preciso e tutta
la trama del racconto sono affidati, a colpi di ricordi, ad un trombettista,
tale Tim Tooney, che, per sfuggire alla miseria e ad una vita grama,
accetta l’ingaggio sul transatlantico Virginian, per rallegrare le serate dei
passeggeri. Su quella nave oltre a sbarcare il lunario conosce Novecento, la
leggenda della musica e gli resta affezionato. Il nome per intero di questo
fuoriclasse, però, è: Danny Boodman T.D.
Lemon Novecento, nel quale si abbina il nome del fochista nero che lo
adotta, più l’anno nel quale è stato trovato, Novecento, per l’appunto. Danny
Boodman, senza pensarci su, lo crescerà come padre amorevole, il suo vecchio
cuore si scoglie quando lo trova abbandonato, scesi tutti i passeggeri, sul pianoforte
nero e lucido della prima classe, sistemato in una misera scatola di limoni e avvolto
in una copertina, senza uno scritto di accompagnamento. Tutto l’equipaggio lo
accoglie con calore, pur temendo che quell’adozione non sia regolare, ma l’uomo,
a chi glielo ricorda, risponde, con un’alzata di spalle “In culo alle regole”.
Per 8 anni gli insegna tutto quello che può della vita, circoscritta al
transatlantico e non lasciandolo mai scendere a terra, nel timore di perderlo.
Poi un triste giorno la morte pone il dilemma di che farne del piccolo
Novecento, sicuramente sbarcarlo e affidarlo a mani competenti, ma il piccolo,
avvertito il pericolo, si nasconde senza farsi trovare se non dopo che lil
transatlantico ha preso il largo. Gli
anni passano e la nave diviene la sua casa e la sua esistenza ed è lì che lo
trovaTim
Tooney nel 1927 restandogli amico per tutta la vita.Tutto
quello che sappiamo di Novecento, infatti, lo dobbiamo a lui, per esempio della
sua bravura al pianoforte senza che nessuno gliel’abbia mai insegnato, della
sua mitezza di carattere, del suo credere nella bontà altrui e del suo
realizzarsi in maniera totale con la musica. Pensieri e desideri semplici, di
un uomo vissuto a stretto contatto con il proprio io e con temi musicali scelti,
colonna sonora della propria vita.
Quando Novecento sfiora i
tasti, senza mai spostarsi dal Virginian, conosce luoghi e vive esperienze
appaganti, riuscendo incredibilmente a vivere ogni viaggio, ogni luogo ed ogni
sensazione, le stesse che sente raccontare dai passeggeri del piroscafo, testimoniando,
poi, di conoscere luoghi senza averli mai visitati. Vive momenti esaltanti ed accetta
e vince un duello musicale con il famoso pianista Jelly Roll Morton, presunto
"inventore del jazz", conosciuto per i suoi modi poco rispettosi, nessuno
crede, possa saper suonare meglio di lui. Novecento senza sforzo alcuno, riesce
a battere Morton, eseguendo un'energica ma delicata sinfonia.
Tim Tooney si esalta nel
ripensare alle prodezze del suo amico e raddoppia i ricordi, ad esempio l’episodio
“della caduta dei quadri” che precede, poi, la volontà di scendere a terra.
Solo un caso?
“A me m’ha sempre colpito
questa faccenda dei quadri. Stanno su per
anni, poi senza che
accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono.
Stanno lì attaccati al
chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un
certo punto, fran, cadono
giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto,
con tutto immobile
intorno, non una mosca che vola, e loro, fran.
Non c’é una ragione.
Perché proprio in quell’istante?
Non si sa. Fran. Cos’è
che succede a un chiodo per
farlo decidere che non ne
può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto?
Prende delle decisioni?...
Un passaggio stupendo lo
spunto dei quadri, che indica come nella vita attimi insignificanti creano,
invece, un’opera complessa e affascinante,momenti congelati nel
tempo, ognuno con una storia e un'emozione unica.
Ed eccolo, Novecento con
il suo cappottino di cammello, rimesso a nuovo proprio per fare la sua bella
figura, appena messo il piede a terra. Sì, ha deciso di scendere dal Virginian
per guardare il mare di faccia e la nave alle spalle. Vuole riprendersi la vita
al di fuori della polla in cui è stato chiuso
“Tutta quella città…
non se ne vedeva la fine. La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? E
il rumore. Su quella maledettissima scaletta… era molto bello, tutto. E io ero
grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito
che sarei sceso, non c’era problema…primo gradino, secondo
gradino, terzo gradino. Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino. Primo
gradino, secondo… Non è quel che vidi che mi fermò. E’ Quel che non vidi…”
Novecento non mette piede
a terra e mai più lo farà, figlio di quella nave è là la sua grandezza e il suo
limite. Nella città è uno sconosciuto, sul Virginian, una leggenda. La
conoscenza delle cose gli è stata data dalla sicura tastiera del pianoforte, con
i suoi 87 tasti finiti. Stranamente la nave, metafora della sua vita, racchiusa
e galleggiante, dovrà essere trasferita sulla terra ferma per essere conosciuta,
raccontata e non da lui. Il desiderio di realizzare i suoi sogni mal si
concilia con la paura del mondo, per cui l’uomo insicuro e timoroso si
consegna, senza rimpianto all’unica cosa certa della sua vita, a quel grembo
materno di nome Virginian, che l’ha accolto in semplicità e protetto
teneramente, consegnandogli pianoforte e musica. E quando la nave dovrà essere
distrutta per raggiunti limiti di percorrenza, Novecento, per l’estremo legame con
essa, sparirà nel liquido amniotico del mare per un’ultima carezza materna
Lo stile colloquiale e la
narrazione sotto forma di ricordi fanno di Novecento un monologo di pregio
unico, che l’attore Fulvio Perrone, della Filodrammatica Orenese,
per la prima volta partecipante all’XS, ha interpretato in maniera
egregia, oserei dire da innamorato pazzo. Non si è risparmiato, Fulvio, sicché
ha volteggiato su di un enorme rocchetto, utile per corde e cavi, ha
caratterizzato personaggi del racconto, affollando la scena, ha smosso scanni,
ha montato scale, ponti, passerella, ha indossato vestiti, cappotto, cappello e
quel che più conta, per 75 minuti, ha raccontato senza dimenticare nulla, un
monologo che di semplice ha solo l’apparenza.
La storia è singolare,
vuoi perché si occupa della vita di un solo uomo, che può essere quella di
tutti e vuoi perché le sue paure ci toccano profondamente ed ognuno si sente
incluso. L'identità, la libertà e il senso di appartenenza, volteggiano, come
voli larghi di gabbiano nel racconto e si confrontano con il mondo esterno del
protagonista, che rimane legato, però, al suo unico ambiente.
Questo suo modo di comportarsi,
per paura di non essere in grado di gestire la vita al di fuori di un luogo
protetto, mi fa pensare (N.D.R.) ai tanti ragazzi Hikikomori, che si
moltiplicano sempre più nell’attuale società.
Infine “Novecento” di
Alessandro Baricco, in assoluto il capolavoro italiano, sviluppa tematiche
che toccano tutti, come il legame per la propria origine, vuoi che sia famiglia
o luogo in cui cresci e ti realizzi, vuoi che sia il sogno di vivere una vita
autonoma senza lasciare il porto sicuro della tua esistenza. Un binomio che se
raggiunto è la felicità!
Maria Serritiello
*La leggenda del pianista
sull'oceano” il film di Giuseppe Tornatore del 1998, 5 nastri d’argento, è
tratto da Novecento di Alessandro Baricco
L’interno della
metropolitana a vista, ha 9 sediolini rossi, di fuori un grosso timer scandisce
secondi che addizionano 2.24 minuti, un tempo ineluttabile, un limite stabilito,
entro il quale si muove l’azione di due sconosciuti: un uomo, Marcos ed una
donna, priva di nome. Realtà e immaginazione s’impossessano della scena e
neanche nel finale c’è nitida chiarezza.
Un contesto banale, dove la metro fa da sfondo
all’incontro occasionale di due sconosciuti, che vivono insieme solo per due
fermate, un luogo quotidiano ed anonimo, ideale per incontri senza conseguenze,
una chiara metafora della vita misteriosa ed intricata.
Sono distanti, 7
sediolini li dividono, abito nero, capelli corti e scialle rosso sulle spalle,
intenta nella lettura di un libro, lei, completo grigio, camicia bianca, senza
cravatta, capelli trasandati e borsa da lavoro in pelle, lui. Ed ecco avere
inizio la narrazione di un tratto di vita disvelata per 2.24 minuti dei due
passeggeri. Un foglietto di carta, per caso o voluto, è lasciato cadere a terra
da parte dell’uomo, prima di scendere alla sua fermata. La donna lo raccoglie
con sussiego e vi legge un’anonima lista di acquisti per la casa,
ripromettendosi di consegnarglielo il prossimo fine settimana, quando si
sarebbero nuovamente incontrati. Inizia, così una fitta rete di messaggi
dall’uno all’altra, dove la posta si alza sempre più e dove il confine dell’innamoramento
si fa sempre più sottile, fino alle richieste impossibili dei due. La donna,
con arte, confeziona il gioco sottile della seduzione, concede e si ritira con
estrema destrezza, implicando nei suoi gesti, forzato sentimento, sensualità
ambigua e sessualità palese, mentre lui innamorato perso, ormai, è in balia
dell’umore volubile della donna. La musica è un forte attrattore tra i due, il
tango triste ballato senza avvitarsi nel vagone vuoto della metro è, però la
negazione più assoluta della voluttuosa seduzione. Marcos ha un piano per
vivere libero l’amore che l’ha preso e che celebra con i versi del poeta
statunitense Wolt Witman, uccidere la moglie e sua figlia! Sì, è sposato, ma
non è l’unico segreto della sua vita, sua madre è stata uccisa(?!) e lui soffocato
dalle sue cure, tanto da esserne malato, è stato nient’altro che un uomo debole
e mai decisionista.
Ecco che la Metro gli
viene in soccorso, con quelbreve lasso di tempo, abbinato alla
particolare condizione di solitudine del vuoto vagone, invalicabile
dall’esterno, per dare la stura liberante ai suoi pensieri impossibili, che un
disturbo dell’attaccamento ha potuto provocare nella sua mente. La donna,
distante a sette sediolini rossi, come sanguigno è lo scialle sulle sue spalle,
già seduzione e manifesta carnalità, gli rende forza, vigore e capacità di
realizzare un sogno, quello nato dalla forza del desiderio e non dalla
debolezza accumulata.
Ha in suo possesso tre colpi di rivoltella,
tre colpi per aggiustare la sua vita, forse anche uno e i 2.24 minuti
disposizione che stanno per scadere…
Rivelare la conclusione
sarebbe “delitto” quel finale che ci ha tenuti incollati alle sedie per 90
minuti, senza accorgersene, va svelato sere per sere in teatro, a noi resta di
riflettere sulla bontà del pezzo, della scelta, della bravura attoriale e della
eccellente regia
Decisamente 2.24 è un dramma
psicologico di grande intensità, gli autori hanno dato vita ad una scrittura a
due mani impegnativa e con buoni risvolti creativi, scrivere al femminile, per
l’altro genere, non è sempre facile ed i due scrittori Pascual Carbonell e
Jeronimo Cornelles, amici per caso, ci riescono in maniera egregia.
Scegliere, poi, un lavoro così impegnativo ed avere la volontà di portarlo in
scena, al concorso dell’XS, va tutta la lodevole ammirazione, distribuita
equamente tra il regista Pinuccio Bellone, Della Corte dei Folli, una
nostra vecchia conoscenza e dei due attori: Annachiara Busso e Corrado
Vallerotti, di straordinaria bravura.
Essere stati per 90
minuti rinchiusi nello scompartimento della Metro sotto terra in balia, ora
dell’uno, ora dell’altra, ostaggi dei due personaggi e delle loro ubbie, i segni
di effettiva claustrofobia ed angoscia smisurata ci sono stati tutti. I
dialoghi incisivi e ricchi di sfumature, hanno permesso di esprimere una vasta
gamma di emozioni, dalla gioia alla tristezza, dalla frustrazione alla speranza,
da una conclusione annunciata, a quella non sperata. Non avrà un finale rosa
2.24, come l’amore filmico di “Innamorarsi”, nato nella Metropolitana di New
York, tra Meryl Streep e Robert De Niro, Marcos, che alla donna darà il nome
equivoco di Clodinette, è invaso da un amore folle, forse mai realmente
esistito, se non nella frustrazione della sua mente e della sua psiche
disturbata. Una linea sottile tra sanità e follia, proiezione tra ciò che vede
o crede sia il riflesso del suo stato mentale.
Uno sguardo lucido ed analitico degli autori
su di una mente disturbata e che nell’anonimato della Metro ha la sua compiuta
espressione.
“Non aspettarmi questa
notte, al mio fianco c’è l’inverno…e sono la tristezza e l’inferno.” Marcos
tutto per una banale
caduta in casa, ci abbandoni.
Senza una parola, uno
sguardo, una rassicurazione, una promessa per rasserenarci. In silenzio e privo
di conoscenza, ti sei avviato senza voltarti indietro, come per raggiungere una
meta. Eppure ti ho conosciuto, tanti anni fa, ma mai abbastanza, soccorrevole,
amichevole, presente nella vita di chi, al di fuori della tua famiglia, volevi
bene.
Io, tra questi e tu come
un buon fratello, un caro amico, un allegro compagno di svaghi e più̀ di un
disponibile parente. Una mano protesa, con slancio ogni volta, per cui, ora, mi
è difficile trovare le parole giuste per esprimere quanto fossi speciale e che
qualità pregiata di gentiluomo e signore d’altro stampo, tu fossi.
La nostra amicizia è durata
quasi 50 anni, un viaggio lungo, ricco di esperienze, di giornate trascorse, di
racconti e avvenimenti della vita condivisi. La tua gioventù dorata, quale
signore di Mottola, ti era restata attaccata come una seconda pelle e la Puglia
dei tuoi natali, viva ma non invasiva, nella parlata dialettale, tipica
l’espressione quando ti salutavo “Adda’ sci” o quando volevi insegnarmi la
pronuncia corretta di Acqua sale”. Uomo, un nobil uomo, di vasta cultura e di
sensibilità acuita verso l’estetica ed il bello. Amavi la musica classica,
quella ascoltata nell’atrio del duomo di Salerno, o dalla terrazza immensa di
Ravello od anche dai tuoi sofisticati mezzi acustici di casa. Il tuo studio un
sacrario, arredato con libri antichi e foto della tua famiglia di origine e
lasciata a Taranto, a tenerti compagnia. La lettura, un hobby, dei tuoi, che ci ha
permesso di scambiarci analisi e considerazioni, a volte anche in opposizione, su
quanto andavamo leggendo. Ogni conversazione con te era un'opportunità per
imparare o esplorare qualcosa di nuovo, per condividere risate e
spensieratezza. Un uomo completo come marito, Iole, la tua compagna di una intera
vita, piange la tua assenza, senza nessun conforto ed è stretta dall’abbraccio
dei tuoi diletti figli, Tommaso e Checco, due uomini buoni che si apprestano a
vivere la loro esistenza, senza avere le spalle coperte dalla tua forza
discreta. I giovani nipoti, Everton e Wellington, ora a guardare il futuro con
l’esempio della tua professionalità e l’integrità esemplare.
Per tutti di famiglia eri
considerato “Il Gattopardo”, dal bonario sfottò che ti eri guadagnato da me,
nel pretendere da Iole, oltre a tanto altro, l’accuratezza del mettere la
tavola. Col tempo abbiamo sommato tanti di quei lemmi, per richiamare alla
mente episodi divertenti, ma anche no, di quelli trascorsi insieme. Eccoti una
sintesi e nel citarli, tutta la nostra vita avvolge il nastro.
“lo scrittoio leopardiano”,
Il vino di Locorotondo, Le cene al castello (dove il castello era la mia casa
fuori città), Le feste in costume a ferragosto, Gli anni estivi al Lido
Olivieri, giovanili, divertenti e spensierati, I compleanni, Gli onomastici e
le ricorrenze ricordevoli.La visita a Foggia
e la mia ricerca puntuta di trovare un luogo alto nel tavoliere delle Puglie.
Lo so, stai ridendo tutt’ora.
E poi il tuo andare
generoso, avanti e indietro dall’ospedale, per portarmi frutta fresca nella
calura estiva, alleviando la mia malattia, le discussioni articolate, seduti al
fresco nell’aia di Emma, ribattezzato l’Ozio Di San Casciano, consumato tra il
frinire delle cicale e l’albero secolare che gettava ombra nell’ acqua tersa
della piscina. Le mie poesie, che devono a te la luce, accompagnate da un tuo
colorito apprezzamento “Ma lo sai che sono belle ste c...di poesie!!
Così Ninì, mi lasci, ci
lasci, un patrimonio di affettiva eredità, raccolto nei tanti anni distesi
dinanzi a noi e poco importa se te ne sei andato da un’altra parte, io
continuerò a chiederti testarda: “Come stai, oggi? E tu a rispondermi: “Botti,
Botti”, per rassicurarmi ancora.
Il XVI Festival XS,
organizzato dalla Compagnia Dell’Eclissi di Salerno, continua il suo
cammino di rappresentazioni, delle 7 in concorso, con un genere musicale, una
novità assoluta: il musical, mai portato in scena, nei 16 anni di
manifestazione.
“Che pasticcio Mars
Peach" di Alessandro Iacovelli è il
titolo del musical, ad esibirsi è la Compagnia della Lira di Casamassima (BA)
e tratta di una donna Mrs Peach, per l’appunto, che
nel piccolo villaggio di Bibury, nel sud dell’Inghilterra, è rimasta a
dirigere, quale governante, la rinomata pasticceria del Sir Martin, alla sua
prematura scomparsa, senza che vi sia un erede certo. Questa l’ossatura del
racconto musicale nel quale s’innestano situazioni particolari, tra il comico,
ad esempio l’arrivo ingombrante (!!) dell’erede inglese- partenopea, cognata e
vedova del fratello del Sir Martin ed il surreale, il morto avvelenato dalla
leccornia, impastata con veleno per topi dall’inesperta ed improvvisata
pasticcera e poi nascosto nel banco da lavoro. Il tutto è condito da opportune
musiche, da motivetti cantati e da passetti di “tip tap”. Quello che appare
subito, oltre al resto, è la cura impiegata nella resa della scenografia,
modellata in perfetto stile english, dai colori pastello e bianchi merletti,
dai vasetti perfettamente incolonnati sulle mensole degli scaffali, dalle
finestre e dal bancone dove due cameriere provvedono a spolverare, sotto
l’occhio attento della rigida governante e ad impastare i dolci, senza sgarrare
in orari prestabiliti. A scompaginare le donne della casa ci pensa, suo
malgrado, il tutto fare di genere maschile, servizievole oltremodo nei riguardi
di Mrs Peach, che profitta della sua devozione per condurre la pasticceria ed i
suoi affari. La nuova conduttrice, invece, sparge intorno alla sua mole
formosa, profumo di cannella e polvere di farina, basta poco e voilà gli ottimi
dolci della casa, sono rinnovati nel gusto e nel sapore, insomma una “Mary
Poppins” di vecchia conoscenza, per come sa usare la semplicità ed a risolvere
i guai. Tutti i componenti si sentono sollevati ed anche il morto non dà
pensieri se nel finale si apprende che tutti e 5 personaggi sono usciti da un
libro a cui manca una pagina strappata, l’ultima.
Bravo l’autore a creare
una soluzione di riparazione per tutti e a regalare il finale agli spettatori, ognuno,
infatti, proverà a cercarne uno. Inoltre Il significato del musical si
concentra su temi come l'accettazione di sé, l'importanza dell'amicizia e la
capacità di affrontare le difficoltà con un sorriso.Attraverso
le peripezie di Mrs. Peach, che nel finale trova ciò che ha sempre cercato,
mandando all’aria la sua rigidità e il senso del dovere, il pubblico viene
invitato a riflettere su come le piccole complicazioni della vita possano
trasformarsi in opportunità di crescita e di connessione con gli altri.
La novità del genere
all’XS è stata presentata dagli interpreti con grande scrupolosità e diligenza
che oltre alla bravura recitativa, posseggono timbri di voce e modulazioni di
buono ascolto; tutte le canzoni, tra il primo ed il secondo atto, sono state
cantate dal vivo. Buoni gli arrangiamenti musicali e la capacità di accordo tra
di loro. L’impegno e la volontà di riuscire al meglio c’è stata tutta ed anche
apprezzata dal pubblico, l’unica nota deludente è proprio la costruzione della
storia che poggia su stereotipi scontati a cominciare proprio da Mrs Peach.
“Inviolata”, al XVI
concorso Teatro Festival XS di Salerno, ha smosso la memoria
collettiva dei presenti, con una riflessione all’indietro, sì da ricordare il
cammino principiato, le dinamiche usate, le sofferenze affrontate, i pregiudizi
umani e culturali sormontati, ma anche per ben rammentareche il processo di emancipazione non è
affatto concluso, anzi.
Una gran fetta di donne,
ancora ovunque, subisce violenze e soprusi inimmaginabili, 40 milioni di
persone è vittime della schiavitù moderna e tra queste, il 71% sono donne e
ragazze, sicché 28 milioni di donne vivono in condizioni di schiavitù e
privazione dei diritti.
Quella rappresentata, la
scorsa domenica, è una micro storia di un piccolo paese della Sicilia degli
anni ’60: Alcamo, dove la donna è “serva anche di Dio” (nelle preghiere) che di
uguaglianza va predicando. Franca Viola, una giovane donna si accinge ad
ingaggiare una lotta titanica contro la morale corrente, contro la tradizione
patriarcale e contro una cultura che giustifica la violenza sulle donne.
Lo spettacolo ha inizio.
Tre giovane donne, scalze e vestite di bianco si rincorrono sull’aia contadina,
vivendo momenti di spensieratezza mentre stendono vestiti, cravatte, sottane,
sulle corde tese. Giocano e sbeffeggiano il maschio con gli abiti del bucato,
imitando la volgare sfrontatezza quando si rivolgono al loro essere brave
ragazze mute. Sguardo chino e sottomesso, capo coperto dallo scialle nero, dopo
il disgusto delle “toccate”, dopo che è successo ancora una volta.E così per un’ora intera rivediamo
rappresentata la storia di ribellione della giovane contadina siciliana, Franca
Viola, nel rifiutare il matrimonio riparatore, dopo essere stata stuprata e
tenuta in ostaggio dal mafioso Filippo Melodia.
La sua storia, la nostra
storia! Ad una donna disonorata e privata della virtù, un valore secolare per
accertare all’uomo di essere il primo nella procreazione, che altro resta se
non consegnare la sua vita all’ aguzzino di turno? È oggetto di sua proprietà,
con buona pace del rapitore, della famiglia, del vicinato, dell’opinione
pubblica ed anche della religione. Questo il credo di accettazione per la donna
degli anni ’60 che si trascinava dietro secoli di schiavitù. Più volte parole,
senza rispetto, come svergognata, disonorata, infangata, spudorata, sfacciata,
sono state rivolte alla donna deflorata dall’uomo orco, ma quello che colpisce
di più sono le zizzanie delle donne stesse, nei loro cortili, per strada,
dietro le persiane e mentre si recano in chiesa. Eva contro Eva, il danno
maggiore fatto dalle donne alle donne, una rovina che ha stagnato il movimento
di emancipazione, solo perché soffocate dal pauroso conformismo, dalla
rassegnazione e dall’incapacità di liberarsi dai pregiudizi, divenendo così, le
peggiori accusatrici delle donne stesse, utile ad alimentare e confermare il
potere maschile.
La storia affrontata sul
palco è stata potente ed è quella che ha segnato un momento cruciale nella
lotta per i diritti delle donne in Italia, non meno di 65 anni fa. Le
bravissime attrici ci ricordano, non senza emozioni le leggi che hanno scandito
il percorso: 1981 eliminazione del delitto d’onore, 1996 il matrimonio
riparatore non estingue il reato.
Colpo di Teatro, per non
trascurare l’aspetto letterario, a sostegno dell’evolversi della vita, il
monologo sulla libertà, la dignità ed il coraggio di opporsi a norme sociali
oppressive, tratto dal Don Chisciotte di Miguel Cervantes, reso
magistralmente dalla piccola attrice, di appena 17 anni.
Tutto è stato assemblato
in maniera perfetta: la recitazione: uno stretto dialetto
siciliano, non essendo la prima lingua delle attrici, la scena, semplice, ma
rievocativa di un paese del sud, i personaggi maschili resi scenici da cravatte
e coppole, le movenze sinuose, volgari ad imitazioni del maschio, la bellezza
della danza a piedi nudi ed alla freschezza delle giovani interpreti,
continuazione e testimone di donne passate, ma così presenti nel bel pezzo di
teatro. Franca Viola, l’interprete principale, evocata in assenza per
tutto quello che ha rappresentato ed una volta messa alla gogna dall’ignoranza
del tempo, ha spezzato le catene del conformismo e si è protesa al di là
dell’arretratezza. La musica, il canto le luci ed il tempo, un buon esempio di
Teatro civile
Maria Serritiello
INVIOLATACompagnia Senza Confine Fasano Brindisi
Drammaturgia e Regia David
Marzi e Teresa Cecere
Con Maria Barnaba, Sandra
Di Gennaro, Ilenia Sibilio
La leggenda del pettirosso è affascinante e ha diverse varianti, ma una delle più conosciute racconta di come questo uccellino abbia ottenuto il suo caratteristico petto rosso.
Secondo la leggenda, durante la crocifissione di Gesù, un pettirosso volava nei pressi della croce. Mentre cercava di rimuovere le spine dalla corona di Cristo, il suo petto si macchiò del sangue sacro. Da quel momento, il pettirosso è stato benedetto e il suo petto è diventato rosso, simboleggiando il sacrificio e la compassione.
Questa storia ha dato al pettirosso un significato speciale in molte culture, associandolo a temi di amore, sacrificio e speranza. È un uccellino che spesso viene visto come un messaggero di buone notizie e un simbolo di rinascita.
"L'Amico dei
sogni", una divertente sit comedy, portata in scena al Ridotto di Salerno,
per due sere consecutive, nel fine settimana scorsa, da Salvatore Gisonna e
Peppe Laurato. Una ventata di freschezza e risate, un intreccio di momenti
alternati di comicità brillante a situazioni esilaranti. Ilnuovo
progetto teatrale, vuole combinare divertimento ed emozioni, una vera e propria
sfida. Già lo scorso anno gli stessi attori sono stati impegnati in “Tre
sfumature di giallo” ed il successo ottenuto li ha convinti a ripetersi,
parlando di amicizia, quella vera che vince sugli inevitabili contrasti.
Fulvio Cortese e Peppe Borrelli, vecchi
compagni di scuola e di banco, il primo della classe e l’ultimo, si
ritroveranno dopo 21 anni, l’uno stimato professore d’ italiano, l’altro
manager di successo. La vita tranquilla del padrone di casa, il professore, per
intenderci, viene letteralmente sconvolta da situazioni paradossali e niente
sarà come prima dell’arrivo del compagno di scuola. Tutto ruota, dunque,
attorno al protagonista e alle situazioni paradossali che dovrà affrontare, suo
malgrado, dal momento in cui viene a contatto con l’amico, irresistibile sia
per la mole impegnativa, sia per la comicitàscoppiettante. L’uno spalla
dell’altro, ognuno con la propria peculiarità. L’allestimento scenico e i
costumi semplici hanno contribuitoa
rendere giusta ogni scena. La regia ha saputo mantenere un ritmo incalzante,
alternando momenti di riflessione ad esplosioni di ilarità. Ed anche il finale sorprenderà
Con Salvatore Gisonna,
una conferma, ogni volta, al Teatro Ridotto e Peppe Laurato, uno scoppio di
ilarità a tutto campo, il cast si avvale della presenza di Lucia Gisio, Peppe
Isaia e Mario Brancigliano
Ad inizio, un velo
sottile gocciolante traspare la scena e divide, per tutta la rappresentazione,
il palco dal pubblico. Ciò che s’intravede sono due opposte scrivanie,
corredate da macchine da scrivere, una stufa in funzione, centrale ed a parete
e gocce di pioggia dal soffitto che vanno a riempire secchi sotto disposti. La
sera è burrascosa, tuoni e lampi si susseguono, come l’incalzante
interrogatorio ai danni di un uomo, bagnato fradicio e avvolto in uno scialle
di fortuna. È là in commissariato, perché trovato a vagare sospettosamente per
i boschi senza documenti.
L’uomo trattenuto in
commissariato, in seguito alle domande rivoltegli, si scopre essere il famoso
scrittore Onoff, tanto ammirato dal commissario che inizialmente non gli crede,
anzi rafforza l’incredulità dicendo che se è veramente Onoff, lui è Leonardo Da
Vinci. Poi la reverenza nei suoi confronti, i panni asciutti, il fuoco
ravvivato, il bicchiere di latte caldo, sputato, però, sul pavimento. I suoi
attacchi d’ira si fanno sempre più serrati, Onoff, perché è ormai assodato che
sia lui, mal sopporta questo modo di trattenerlo senza che abbia commesso
nulla. Nella deposizione ci sono sospettosi vuoti di memoria e anche quando si
cambia gli abiti, la camicia insanguinata lo impensierisce tanto che si
affretta a bruciarla nella stufa. Intanto i sospetti sulla sua persona s’infittiscono
sempre più, sarà veramente Onoff, lo scrittore, o è il vecchio senza tetto
conosciuto, a cui ha rubata l’identità? E perché ha una rivoltella che punta
verso il commissario? In sostanza chi è veramente Onoff? E l’omicidio commesso
nei pressi di casa sua, che cosa ne sa? Onoff è un personaggio reale o una pura
invenzione letteraria?
Il dubbio, veramente più
di uno, si manifesta per tutti e 70 minuti di rappresentazione e s’insinua
prepotentemente negli spettatori, che cercano di mettere ordine a questo
thriller, all’apparenza semplice, ma che così non è, sì da lasciare, alla fine
più domande che risposte. Per esempio il nome dello scrittore formato da on che
vuol dire aperto e off che vuol dire chiuso, può significare che la sua psiche
a volte sia ricettiva ed altre volte no? Oppure la sua presenza in
commissariato, non è altro che la stesura del nuovo romanzo, tanto da portare
per mano lo spettatore, all’interno della sua stessa composizione? O ancora,
Onoff avendo scoperto di aver ucciso si è, a sua volta, tolta la vita? I
personaggi che gli girano intorno sono fittizi e lui si trova di fronte al
giudizio supremo? Tante domande per giungere all’affermazione che “ricordare è
un po' come morire” tanto che il trapasso gli permette di raggiungere, alla
fine, una nuova fase della sua esistenza.
Un giallo per niente
facile, efficace nell’intrigo, nel raddoppiare la suspence, nel mischiare più
ingredienti solitamente usati per confondere, per destabilizzare e mantenere
viva l’attenzione. E ci riesce bene l’autore, il bravo Quignard nel creare una scrittura
paradossale, tormentata, che ricorda, per certi versi Kafka, ma anche
Dostoevskij, con le sue tensioni tra bene e male, fede e dubbio, ai confini
estremi della condizione umana. Un pezzo di teatro che ridimensiona la nostra
banalità mentale e quotidiana, che va dall’onirico all’analitico, tra
l’inconscio e la spettacolarizzazione del possibile, quasi un esercizio
letterale che però avvolge e coinvolge.
Ecco allora la quarta
parete, sottilmente cinematografica ed un tantino claustrofobica, a smuovere
sensazioni ed emozioni, a ricordare che gli attori, da uno spazio protetto,
provano a realizzare tempi multipli e disancorati, ma nello stesso tempo
magnetici. Un’operazione scenica non banale, mai tutta reale, eppure presente e
pregnante, perché voluta dalla mente e che mente, se è quella del suo autore!
Grande bravura nella capacità
teatrale degli attori: Maurizio Gluk Picariello, espressione della mente
fluida ed evolutiva, quella analitica e rigorosa di Paolo Capozzo e quella
di Antonio Colucci, unicamente spettatrice, ovvero i tre aspetti, veri e
propri, della mente. Il “Teatro 99 posti” di Mercogliano (AV) è già noto
al Teatro Festival XS di Salerno, in concorso, in varie annate del festival e lo
scorso anno, con “Uscita di emergenza”. Complimenti alla compagnia per
aver interpretato e scelto un prodotto di nicchia, messo in opera dal valente regista:
Gianni Di Nardo e seguito in modo impeccabile dalle luci disegnate da Luca
Aquino, impreziosite da effetti scenografici di Maina Parrilli.
Buoni gli effetti sonori e la sottolineatura della musica