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venerdì 19 gennaio 2018

AL TEATRO DEL GIULLARE DI SALERNO E LA REGIA DI BRUNELLA CAPUTO“SMITH & WESSON DI ALESSANDRO BARICCO


Fonte: www.lapilli.eu
di Maria Serritiello
A distanza di una settimana, al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, Brunella Caputo, regista, attrice e scrittrice, è passata, con invariata valentia, dal dirigere lo spettacolo “Vita quotidiana dei Bastardi di Pizzofalcone” di Maurizio de Giovanni, a “Smith & Wesson, un pezzo teatrale di Alessandro Baricco. Con lei, in una straordinaria caratterizzazione dei personaggi, Andrea Bloise, Renato Del Mastro, Teresa Di Florio e Cinzia Ugatti.  Il testo pubblicato per la prima volta nel 2014, si compone in due atti, che l’adattamento della regista  concentra in quadri, annunciati dal buio totale, in scena.
Tom Smith e Jerry Wesson, per circostanze fortuite s’incontrano in un luogo fantastico, alle cascate del Niagara e l’anno è il 1902. Si aggiunge a loro, una giovanissima giornalista ventitreenne di nome Rachel Green, desiderosa di scrivere una storia sensazionale, altrimenti la redazione del San Fernando Chronicle la licenzia. Perché sia arrivata fin là, per scrivere lo si capisce dalla grandezza delle cascate, ma anche dai tanti visitatori che vi trascorrono la luna di miele. Nel posto magico ci sono anche suicidi e Wesson, ripetendo il lavoro di suo padre, è l’unico in grado di ripescarli, naturalmente morti. Smith dal canto suo, compila mappe per poter, attraverso il tempo trascorso, fornire dati metereologici. Insomma un terzetto insolito, ma ben assortito per darsi all’immaginazione e all’avventura. Il quarto personaggio, la signora Higgins, sempre nominata nei dialoghi dei tre, mai apparsa e ritenuta, dai due una poco di buono, si mostra nel finale, concludendo la storia con saggezza e spunti di riflessioni.
Lo spettacolo spalmato in due serate della scorsa settimana è la conferma che pur cambiando genere e significato, Brunella Caputo riesce a tener desta l’attenzione degli spettatori, fino alla chiusura definitiva del sipario. Il pezzo, giocato su variazioni, non solo di linguaggio ma anche di ritmo, di costruzione dialettica e di considerazioni filosofiche esistenziali che, pur sapendo molto di outing emozionali, rivela i disagi dei tre personaggi, dal momento in cui si riscoprono nudi di fronte ai propri errori ed a rimpiangere una vita che poteva essere diversa e che non lo è stata I tre protagonisti del primo tempo, ai limiti della superficialità isterica di Tom o del tono scanzonato di Jerry o della voglia matta d’ inseguire l’immortalità o meglio un’inutile notorietà di Rachel Green, fa seguito una ieratica signora Higgins, a testimoniare il proprio malessere, per aver perso le occasioni che la vita le ha concesso, per costruirsi una vita diversa e a tracciare i binari di una moralità ancestrale lontana mille miglia dalla moralità attuale, figlia dell’ ignoranza e della vacuità emozionale e di idee. La vituperata signora Higgins (Cinzia Ugatti ) appare al lato e fuori dal palcoscenico, non più di dieci minuti, nella sua camicia di seta bianca su di un pantalone nero ed è subito classe, stile ed elegante recitazione, una caratterizzazione perfetta. Tutt’altra cosa è Rachel, (Teresa Di Florio) fragorosa, futile, leggera, bravissima nella sua puntuale ed inopportuna goffaggine, propositiva per un progetto idealizzato, ma per niente preparato, finalizzato ad un obiettivo assolutamente fuori luogo e che ha dentro di sé il germe della tragedia annunciata. Rachel si lancia spudoratamente verso la rovina, incapace d’intuirla, ha solo qualche incertezza per la claustrofobia che di sicuro la coglierà all’interno della botte e così il destino sarà compiuto. Esso si consuma, nel clamore della stupidità e ne viene affidato il ricordo a chi pur avendo avuto la possibilità d’ impedirne il passaggio all’atto non l’ha fatto. E allora a niente è servita la bizzarra e nevrotica mania di Tom (uno splendido ed inappuntabile (Andrea Bloise), che ha fatto dei suoi interventi dialogici dei capolavori di velocità linguistica, oltre all’espressività e ai cambi d’interpretazione, nell’affidarsi sterilmente alla raccolta dei dati, elegante e quasi snob, o la trasandatezza per certi versi fastidiosa e insolente di Jerry, (Renato Del Mastro) perfetta la sua caratterizzazione di un personaggio alla deriva, molto abilmente sorretto dalla vena del clochard, la sua capanna, infatti, ne ha tutte le caratteristiche, pronto solo a dormire o ad etichettare la Signora Higgins e a subire le sfuriate verbali del suo compare occasionale.
Sul testo “Smith & Wesson” di Alessandro Baricco, ovvero sul nesso di causalità, sulla sua presunta esistenza, e sulla sua frequente in-esistenza, bisogna, una volta per tutte, convincersi che il filtro, che noi umani spesso adottiamo nell’approcciarci al presunto mondo reale è e rimane sempre e solamente un nostro filtro che può avere, come non averlo, un riscontro obiettivo, volesse solo il fatto che la realtà “reale” è inesistente. Ed ancora si semina, si raccoglie e non c’è nesso tra una cosa e l’altra, “…T’insegnano che c’è, ma…non so, io non l’ho mai visto! Accade di seminare, accade di raccogliere, tutto li’…la saggezza è un rito inutile e la tristezza un sentimento inesatto, sempre”. Queste le parole dello scrittore Alessandro Baricco quando, nel finale, fa parlare la Signora Higgins. La tristezza elegiaca gli suggerisce la mesta conclusione “…Seminammo con cura, tutti, quella volta, seminammo immaginazione, follia e talento. Ecco cosa abbiamo raccolto, un frutto ambiguo: la luce bella di un ricordo e il privilegio di una commozione che per sempre ci renderà eleganti e misteriosi. Voglia il cielo che questo basti a salvarci, per tutto il tempo che ci sarà dato, ancora.”
Molto interessante è l’intervento della regia di Brunella Caputo nel rendere l’afflato filosofico della seconda parte, preparato da una prima, per certi versi solo introduttiva, perché potesse essere esaltato la seconda, tutta centrata sulla figura di quella signora Higgins, tante volte vituperata e diffamata, che si fa portavoce, sia pure a mo’ di un proprio atto di contrizione, della filosofia dell’autore, laddove dice che certe cose accadono e basta. La pièce riesce agile, snella, molto gradevole e soprattutto senza perdere la pretesa dell’autore di dire la sua in merito all’argomento principe del cosa sia la vita e la fede e la funzione della letteratura tutta. Indovinatissima è la scelta musicale di Virna Prescenzo, che sorregge il tutto, un plauso incondizionato va a lei, sia per le luci, che per aver preferito un insolito Beethoven, tanto da essere similare a Mozart.
Maria Serritiello
 

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