Docente di Lettere,
Psicologia e Religione nelle Scuole secondarie di secondo grado. Organizzatrice
di eventi culturali a livello cittadino e nazionale. Condirettore del giornale “L’Attualità”
con sede a Roma e già pubblicista del periodico “Agire” di Salerno. Impegnata
in attività di volontariato. Ha lavorato come esperta del C.I.C.nell’Istituto “G. Amendola” di Salerno.
Laureata in
Pedagogiapressol’UniversitàdiSalerno.Diploma diLaureadiAssistente Sociale. Laurea in Scienze
Religiose conseguita a Salerno. Abilitazione all’insegnamento di Italiano,
Storia, Educazione civica, Geografia nelle Scuole secondarie di primo grado. Abilitazione all’insegnamento di Materie Letterarie
nelle Scuole secondarie di secondo grado. Abilitazione all’insegnamento di
Psicologia e Filosofia nelle Scuole secondarie di secondo grado. Corso annuale
di specializzazione post-laurea in Didattica dell’Integrazione e dei processi
di socializzazione presso il FORCOM di Roma. Corsoannualediperfezionamento post-laurea inTecnologiedella Comunicazione
Formativa (Università degli studi di Salerno) .Corso di Dizione organizzato
dall’E.N.A.L. di Salerno. Corso di Ceramica e Disegno presso la Ditta Solimene
di Vietri.
Presidente
dell’Associazione Culturale
“Il Caffè dell’Artista”
di Salerno, fondata nel1996.MembrodelConsiglioDirettivodell’UN.I.A.C.(Unione Italiana AssociazioniCulturali).Fondatricedel MovimentoGiovanileMissionarioe
rappresentante nazionale
delle Pontificie Opere Missionarie.
Organizzatrice di
Manifestazioni con macchine d’epoca con il Club di Napoli.
Referente per dieci anni,
presso il liceo “Da Procida” di Salerno, di progetti P.O.F
del Cinema e del Teatro,
con annessi premi nazionali per le sceneggiature e i testi.
GiàR.S.U nel Liceo Da Procida. Già revisore dei
conti nella C.I.S.L. di Salerno.
Volontaria nella
Pastorale diocesana, nei gruppi giovanili ed esperta nel C.I.C.
Corso annuale post-laurea sulla Didattica dell’integrazionee dei processi di socializzazione.CorsodiAlfabetizzazioneinformaticapressol’Universitàdi Salerno. Competenze psicologiche e
formative. Mediatrice della Cultura per la Città di Salerno. Competenze
socio-religiose nell’ambito della Curia di Salerno.
Conferenze sulle devianze
giovanili presso il Tribunale di Torre del Greco, la Provincia di Salerno (con
il giudice Andria) e presso il IV Municipio di Roma (con il giudice Vassalli).
Ha realizzato
numerose
Mostre d’arte presso il
palazzo Genovese (Salerno), Roma, Rimini e Palermo. Esperta nel settore Teatro
e Cinema(scenografia, costumi,
corporeità) per la video comunicazione.
GABBIANI
La marea fluttuante sale
sfiorando la tua essenza
nel ritmo della vita.
Il vento frusciante
danza il tuo desiderio
colmo nei battiti del cuore.
La dolcezza attende il tuo ritorno
come i gabbiani nel sospirato tramonto
per vivere il canto libero insieme
Dedicata a Cosmo
Sei andato via all’improvviso,
senza una parola di addio
così com’era tua consuetudine esser discreto,
nel pieno dell’entusiasmo
di poter realizzare sorridente
progetti di vita,
qualcosa di terribile ti ha strappato a noi
lasciando un vuoto senza risposte.
Ecco, guardando le nuvole
avverto la tua presenza,
vedo le tue braccia allungarsi
fin qui sulla Terra
e un vento leggero mi sussurra parole
accarezza i miei capelli
come facevi tu
per allontanare ombre di
pensieri tristi
GRAZIE A CHI HA CREDUTO IN UN SOGNO
Il vento soffia dentro e fuori il cuore
invisibili pensieri
seguono la scia dell’animo terso
in un mondo così effimero.
Esplosioni di tormenti
nella ricerca di giustizia e libertà
per uomini che regalano il tempo ad un’idea.
Immensi progetti conducono
all’evoluzionismo dell’uomo
chiuso nella folle quotidianità
grazie all’utopia di pochi
scopro il senso della felicità di molti.
Superato il confine dell’omogeneità
ora emerge il divenire umano
grazie a chi ha creduto in un sogno
realizzato poi con la volontà di molti.
Quel ponte di Lubiana
Quel ponte di Lubiana
che mio padre ha attraversato tante volte
ha visto combattere italiani e stranieri
quel ponte che porta a strade piene di camini
simili alle strade del cuore accese
dalla speranza di ritornare a casa vittoriosi.
Un ponte dove ancora aleggiano anime
di tanti giovani che hanno perso la vita
tra forti stridii di carrozze e di armi.
Fumanti le postazioni di guerra
ancora chiedono giustizia.
Oggi erranti uomini
senza volto e senza storia
si aggirano inconsapevoli di tante sofferenze.
Ritorno a Fiume
lì dove si è consumata la nostra storia
ancora oggi altri uomini attendono al confine
chiedono un mondo migliore
in questa calca di indifferenza
e in nome di uno pseudo benessere.
Lì dove tutto è stato cancellato
anche i nomi delle strade e dei nostri italiani
che per amor di Patria andarono a morire.
Inconsolabili furono le lacrime delle madri
per una vita attesero invano il ritorno dei loro figli
La
Compagnia Colpo in Maschera di Fasano è alla sua seconda
partecipazione al Festival XS Di Salerno.
Era il 2019 e lo spettacolo “A Vigevano
si spacca” s’incentrava sulla figura del cantante Rino Gaetano. Passano gli
anni e questa volta è di turno Domenico Modugno, con “Il sogno di Domenico” ovvero un delicato quanto coraggioso
tentativo di coniugare leggerezza e profondità, cultura e passione, amore per
la propria terra e trasporto per il cantante, che più di ogni altro ha fatto
sentire la sua viscerale italianità, con uno stile mai banale, sempre riuscendo
a guidare, con timone fermo, l’arrivo della nave in porto, nonostante il
rischio di derive popolaresche e provinciali, sempre dietro l’angolo.
La scena è nuda, scura, nel
fondo, appoggiata ad una gruccia, la giacca blu chiaro e un papillon che,
subito, evocano la figura del cantante a Sanremo del 1958 e loro due: Gerry Moio, l’interprete e Demy Ditano, il chitarrista. Lo
spettacolo ruota intorno alle parole ed alla musica, un felice connubio se la
musica e di Mimmo nazionale e le parole pensate, tanto da farne un copione, da Mimmo Capozzi e Gerry Moio.
Un racconto, il sogno,
che attraverso il percorso di successo, alla fine, però, di Domenico Modugno, Gerry Moio, completa il suo, che è
quello di essere su di un palco a raccontare di sé. E lo racconta bene, in
maniera divertente, con le pause giuste e l’humor, a volte ingenuo, ma
efficace. Altre volte, Gerry, si lancia anche in analisi sociologiche, di come
va il tempo oggi e di come era meglio tempo fa, un pò di sana captatio benevolentia non guasta, conteggiando l’età anagrafica
degli spettatori.Da premiare, poi il coraggio degli autori
di aver bene assemblato con maestria tutto lo spettacolo e di aver affrontato
il tema spinoso della libertà o meglio del sogno di libertà che anima la mente
e lo spirito di tanti uomini.
Un‘ora e più di canzoni,
le più belle di Mimmo Modugno, ma ce ne sono di così, così (?), cantate ed
accompagnate dal virtuosismo strumentale di Demy Ditano. Uno spettacolo ben
bilanciato tra gli aneddoti del grande cantante, raccontati con spigliatezza e
la vita del narratore, ispiratosi alla sua energia positiva, alla sua
straordinaria caparbietà ed anche al caso, perché no, per raggiungere la fama
I successi del cantante
modulati dalla voce di Demy Ditano, hanno coinvolti i presenti, tanto
che scanzonati e ritmicamente hanno, sottovoce, accompagnato i refrain più noti:
Meraviglioso, Lili, Nel blu dipinto di
blu, Vecchio frac, La moglie se ne va, Resta cu me, Amara terra mia.
Con
Benedetto Casillo, Giuseppe Affinito, Salvatore Chiantone, Tonia Filomena,
Amelia Longobardi, Emilio Massa, Anita Mosca, Enzo Moscato, Antonio Polito.
“Occhi
Gettati”, dove “gettati” sta per dare uno sguardo selettivo su
qualcosa che molti, trascurano “una sorta di picassiana Guernica, sul
teatro, su Napoli e su me”, come lui stesso definisce il lavoro,
scritto nel 1986 e potato in scena dopo trent’anni. Del resto, gli 8
straordinari interpreti, che in cerchio affollano la scena sono corpi smembrati
dalla vita, come quelli spiaccicati nell’opera pittorica. Ed eccoli, fin
dall’inizio, prendere posto, uno ad uno, con vesti che già raccontano chi sono
stati e sono. Nello spazio recitativo accovacciati per terra, attendono la
vestizione: il velo. Il fondale è rigorosamente nero, al centro troneggia una
maxi scena di San Sebastiano, sparsi a terra petali di fiori per leggiadria di
contrasto e sotto Enzo Moscato, seduto dietro ad un leggio, segue, partecipa,
interviene, interpreta. Non mancano le lucine da festa di paese, scendere
dall’alto come timidi raggi illuminanti e lui, officiante di una liturgia laica,
a dare il via ad un racconto convulso, incalzante, a volte delirante, ma di una
logica stringata, per chi segue il suo teatro e le sue tematiche. Otto gironi
danteschi in cui si muovono: il femminiello, luparella, a strega, desnudo,
palummiello ed altre equivoche figure. Le narrazioni appartengono ad un’esistenza
di mezzo, a cui Enzo rende giustizia e conoscenza e quello che aggiunge di
kitsch o di troppo osato, è per mandare a mente un mondo, che sebbene esistito
e forse esistente, nessuno se n’è mai occupato con l’anima.
Il suo vuole essere un ennesimo
tributo al mondo altro che abita in ognuno di noi (vale anche per i non
napoletani), un mondo da alcuni accettato, da altri rimosso, da altri ancora,
solo oggetto di denigrazione e diffamazione e lo fa scegliendo un narrato corale,
polifonico con un occhio ai gironi danteschi e un altro all’accettazione che
Napule e’. Quasi un quadro di insieme,
una sorta di lascito testamentario artistico, letterario del proprio mondo.
Nella sua pièce tanta memoria collettiva a
rispolverare melanconicamente il passato, come la musica, una parte importante
che, ogni volta, invade la scena, ora allegramente con “Angelina”, cantata da Luis
Prima, con un americano approssimativo, come la lingua “ broukulinaparlata dai nostri emigrati in America, o
come la leggiadria della lingua francese di Yves Montand. Un puzzle di ricordi,
di emozioni, stratificati nell’animo del grande artista. Al di sopra di tutto,
ciò che affascina di più e sempre di Enzo Moscato, nei suoi originali
spettacoli, è la parola, di cui è maestro. Una complessa struttura di intrecci
e citazioni, un’articolata architettura linguistica desunta dalle varie
invasioni subite dalla città e che affollano il linguaggio del testo.E poi le parole mormorate fiatate e ripetute
come in un eco immaginario e lo spettacolo s’imbuca in un coro da tragedia
greca. Ad unire tutto l’impianto
culturale, tutto questo mondo crudo e poetico, reso bellamente scenico da Enzo
Moscato, ripetuto più volte, come le parole recitate, per essere ben comprese,
il dolcissimo canto rievocativo di Franco Battiato, Prospettiva Nevski.
Improvvisamente, ognuno dei presenti, commossi e partecipi, sono entrati di
diritto nella creazione di Enzo Moscato.
E’ da subito che la
galera ti entra dentro, con il suo essere buia, scarna, vuota. L’infelicità si
tocca con mano. Là dentro, la liberante ha trascorso 16 anni, ora sta per
essere liberata, ha pagato il suo prezzo, ma ciò che ha passato si è attaccato
al suo essere, fisicamente, per cui gesti, reazioni, riso, pianto, accennata
storia della sua vita, sono sotto gli occhi dello spettatore. Si sa che ha due
figli piccoli, al momento della carcerazione, una madre che non vedrà più,
morirà il giorno stesso della sua liberazione e nel mezzo la sua detenzione
rappresentata con accenti forti, che mozzano il fiato. Due i personaggi, la
liberante e l’alter ego, a volte secondina, altre volte compagna di cella ed
altre volte ancora il sostegno dei suoi ricordi. La soglia è davanti a lei, ma
ne ha paura, e se non fosse all’altezza di riprendere la vita dove l’ha
interrotta? Si assiste ad un lento feedback, al processo, al patteggiamento,
alla condanna, uno sconto minimo sui 20 anni iniziali, alla disperazione di
dover abbandonare i suoi figli, già la maternità è sempre così forte su ogni
cosa! Come una bambola di pezza la donna viene trasportata nell’istituto di
detenzione, una via crucis l’entrata, sottolineata da rumori di ferraglia, di
cancelli che si aprono e si chiudono, trilli di telefoni di martellamenti, di
sghignazzi e poi, la cella, un buco senz’aria, due casse per branda, una sedia
di nichelio, solo sagoma, per dire che la seduta non è un momento di relax come
lo è di solito.
“Togliti l’impermeabile”
le intima la carceriere, poi con fredda successione tutti gli altri indumenti,
fino a restare nuda, un chiaro simbolismo per dire che in cella non sei più
nessuno. Brava, Loretta Giovanetti, la
regista che con delicatezza tutta femminile è riuscita a rendere nuda la
carcerata senza che le parti in mostra avessero un che ben minimo di volgarità
espositiva. Lasciati gli abiti della libertà, ora è apparecchiata per la
detenzione.
Le visite dei familiari
sono importanti, da tre anni non vede suo figlio, ma oggi è il giorno. Si
prepara, si veste, si ravvia i capelli, si pizzicotta le guance per coprire
l’ovvio pallore e palpitante si avvia. Torna quasi subito, a testa bassa, lo
sguardo fisso ed il lutto nel cuore, suo figlio la rifiuta. La vita non le
risparmia mai nulla e così da sempre, fino a spingerla in una cella fetida,
dove stranamente trova riparo, tanto peggio di là, dove. Così la compagna di
cella diventa la sua famiglia, la depositaria delle sue angosce, dei suoi
tormenti, delle sue paure, ma anche dei suoi desideri saffici, insomma nel
posto che meno te lo aspetti, tra donnacce, prostitute, ladre ed assassine si
sta bene, almeno parli; tra infanticide e bordelli, almeno vivi ed ancora, tra crisi
delle tossiche o la radio ad alto volume delle più giovani, i pidocchi, panni
stesi e la sporcizia delle barbone, almeno esisti.
Il cambio di
destinazione, dopo anni di permanenza nella prima prigione è per lei
destabilizzante, un adattamento inaccettabile perché si trovava bene nel primo
penitenziario, la strappano via, la sistemano sul cellulare e poi in treno. Di effetto
scenico il trasferimento, sottolineato da una musica originale che rende
l’andar del treno sulle rotaie.
Nuova ambientazione e
nuove angosce fino al momento di abbandonare per sempre la prigione. Sta sulla
soglia, si guarda indietro e s’imbuca in una di quelle notti senza regole, dove
le detenute trasgrediscono le regole, infischiandosi della cella d’isolamento,
ironicamente soprannominata Chamonix, per il freddo e d’estate Saint Tropez.
“La notte è nostra direttrice” affermano con voluttà senza freni, l’intreccio
dei corpi ne è la dimostrazione.
“Addio allora, addio a
tutte voi che restate, con il bagaglio pieno di vite iniziate e spezzate a
metà, io vado, ma non so chi trovo ad aspettare… Nessuno! Io vivo da sola con
il mio crimine, due colpi di fucile in mezzo al petto di mio marito! Ho 49 anni
e sono sulla soglia, voglio uscire, noo non voglio, arriverà la prima guardia,
mi aspettano, guarderò il passaporto, la foto è di vent’anni addietro, non mi
volterò, porta sfortuna, odo il grido di Nicole, lei sconterà l’ergastolo e
l’assenza di un’amica particolare. Non piangerò. Guarderò fisso davanti a me,
ho paura …la porta sta per chiudersi. Ecco è fuori … “ci sono lacrime del cuore che non arrivano agli occhi”
“La
soglia”, in francese “le Sas” di Michel Azama, scritta nel 1986 è
il terzospettacolo del Festival Nazionale XS di
Salerno presentato dalla produzione
Grandi Manovre di Forlì per la regia di Loretta Giovannetti, anima e corpo
dello spettacolo al quale prestano il loro talento indiscutibile: Beatrice Buffadini, la liberante e una
volenterosa Francesca Fantini. Le ridotte misure del teatro hanno reso
il pezzo più drammatico di quanto il testo stesso vorrebbe, per via di una
indagine psicologica pressoché superficiale nello scandire passaggi, già
drammatici, legati alla localizzazione del tutto: carcere femminile di
personalità borderline, responsabili di crimini esecrandi, dove naturalmente
tutto è più! Ad equilibrare ed a pareggiare la situazione, ecco l’intervento
della regia nella scelta delle musiche originali (Renato Billi) e quelle adattate (Matteo Camorani), che sono funzionali al dipanarsi della storia ed
a dettare i tempi delle battute, un terzo personaggio in scena, così come la
gestualità corporea.
Maria
Serritiello
La
Soglia, riadattamento testo: Loretta Giovanetti
Ideazione
progetto luci: Adler Ravaioli
Colonna
Sonora Originale: Renato Billi
Effetti Sonori Tribunale: Matteo Comorani
Arredi
di Scena: Sergio Cangini
Costumi
e Oggetti: A cura del Cast
Grafica:Beatrice
Buffadini
Una
produzione: Grandi Manovre in collaborazione con Orto delBrogliaccio
Il
13 marzo “Quelli che il Teatro…” di Mugnano di Napoli
hanno presentato al Teatro Genovesi, nell’ambito del Festival Nazionale Teatro XS Città di Salerno, “La stranissima coppia” di Diego Ruiz.
Ad apertura di sipario,
dinanzi al portone del civico 62, c’è un lui con un mazzo di fiori finti in
mano, ad attendere una lei, è il loro primo incontro! Un sottofondo musicale
romantico, la voce è di Frank Sinatra, chi se no, stempera l’attesa di Diego,
questo è il suo nome, che tenta, invano, di calmare la sua ansia. Il portone
non si apre, ma Milena, così si chiama la donna attesa, le appare lo stesso, ha,
infatti, scavalcato, la finestra per raggiungerlo e raggirare così il suo cane
Filippo, che nel prosieguo sarà determinate per lo svolgimento della storia.
Inizia, così, una convulsa conoscenza, le loro esperienze pregresse hanno fatto
danni quasi irreparabili, di mezzo, c’è, poi, il cane Filippo, che se non
s’addormenta, la padrona non è libera di uscire con lui. Nell’attesa di una
romantica cenetta, prenotata da Diego, in un ristorante alla page, ma versata
da lei che preferirebbe una pizzeria, sul portone, come due adolescenti
approfondiscono la conoscenza. Si viene a sapere della convivenza indimenticata
di lui, della sua solitudine, perché incapace di attaccar bottoni, se non per
una relazione seria, di lei, invece che è stata tradita da Filippo, suo marito,
che ha avuto vari uomini da cui ha avuto benefici e che per essere loro,
riconoscente, finite le storie, chiama i suoi animali domestici con il loro
nome.
Si avvicinano e si
allontanano, litigano su tutto, difficile trovare un punto in comune. Intanto Filippo,
il cane, non s’addormenta mugola a perdifiato, impedendoli di allontanarsi dal
portone, la cena nel ristorante va a monte, ma nessuno dei due decide di non
dare seguito all’incontro, la solitudine pesa. A sbloccare la situazione, ci
pensa Milena, appena saputo che il buon Diego, sì lui, così anonimo, che regala
fiori finti e veste classico, è un impiegato delle agenzie dell’entrate
“Non giudicare, tu non
puoi capire” è la frase mantra che Milena cita ogni volta che deve giustificare
le sue avventure.
Così finiscono per
passare una serata seducente a casa di lei e Diego sarà il nome del prossimo
animale domestico
Due tempi accettabili,
che si avvicinano alle commedie brillanti e leggere che tanto piacciono,
soprattutto adatte per questi tempi così impegnativi per lo spirito. Il testo è
semplice, prevedibile ed anche l’intreccio scorre su binari sicuri. Poche le
battute divertenti, sta di fatto, però, che “La stranissima coppia” scritta da Diego Ruiz nel 2013, dopo un primo debutto del 2014, nel 2015 ha
collezionato 150 repliche nei teatri di tutta Italia. L’autore, anche attore, nasce a Roma nel 1971
e spazia tra commedie e teatro sperimentale prima di approdare definitivamente
al teatro brillante. Gianluca Cinque,
interprete e regista del pezzo, ha tratteggiato, con una recitazione
positivamente disadorna, l’uomo qualunque, mentre Angela Panico ha dato vita, con una certa forza, ad una Milena
nevrotica, stridula e prepotente. Entrambi efficaci nei loro ruoli, è stato un
piacere averli in gara e presenti per la prima volta al Festival XS. Commovente
la loro emozione per la trasferta salernitana
Io sono Maria e ho
deciso”. Così dichiara con forza la protagonista quando è messa dinanzi a
scelte essenziali della sua vita. Una donna volitiva, Maria, anche se può
sembrare il contrario. Vive in un paese del sud, il dialetto lo rivela musicale
ed incisivo subito, le parole, poi, usate, necessarie a descrivere la storia e
l’interiorità di lei. Vive con la nonna che le impartisce un’educazione severa
e rigorosa, tanto da vietarle la compagnia di Tanuzzo un bambino, della sua
stessa età, ma di una famiglia chiacchierata. E sarà questa frequentazione,
nonostante l’anziana donna, a segnare la sua vita futura. Maria ha grande
sensibilità, che certamente non è pari a quella della nonna, una donna
concreta, dedita al lavoro ed alla sussistenza di loro due, per cui, crescendo,
affida i suoi sogni e i sospiri d’amore alla luna. La vecchia sapeva ripeterle
a mo’ di consigli, tutta una serie di sentenze, che tendevano, sia a rimarcare
la condizione di ineluttabile marginalità, sia a proteggerla all’interno di una
ristretta cerchia paesana ed al suo stesso destino.
“Piglie lu buone tiempe e
infilatele dinte” “Il sole va meritato”
“I calli sulle mani e sul cuore”.
Più tardi, senza un
perché, troviamo Maria su di una corriera che si allontana dal paese per andare,
ospite da sua zia, a lavorare in città e quando la fatalità accompagna, sulla
corriera incontra Tanuzzo.
La trama, se vogliamo, è
anche semplice: lei, uno spirito puro, bisognosa sia d’amore, che di conoscere
il mondo, lontana dal guscio protettivo che l’ha ingabbiata, finisce nella rete
del giovane. Abbagliata dall’amore di lui, inizialmente platonico, infatti lo
ama come si ama la luna, da lontano, per trovarsi a vivere con lui, senza
accorgersi di che razza di uomo sia. Vari sono i gradi di conoscenza ed
emancipazione della ragazza, passata dal paese alla città, dal confrontarsi con
l’amore malato ed egoistico di Tanuzzo, mentre lo credeva puro ed ideale, al
rafforzarsi amaramente, lasciando i sogni dietro di sé fino a prendere una
decisione estrema, ma tant’è, lei è Maria ed ha deciso.
Un tema di estrema attualità,
quello che Marco De Simone mette in scena con delicatezza e gradevole
morbidezza, lui stesso nella parte dell’innamorato, poche volte imprime alla
sua recitazione una voce alterata, un tono al di sopra delle righe. Maria,
(Elena Starace,), invece) è sognante, è fiduciosa, è innamorata, è tranquilla,
è speranzosa, è avvolgente, è decisa ed è determinata a pigliarsi lu buone
tiempe e ad infilarselo dinte.
Lo spettacolo, dalla
durata di un’ora e mezza, incanta per la sinuosità delle parole, per i toni
sommessi, per il biancore irrompente della scena, per i cambi dei colori dei
vestiti indossati da Maria, stanti a sottolineare le fasi essenziali della
trama: bianco, rosso e nero, i fili intrecciati come una tessitura di una
ragnatela a lei intorno, il lutto dello scialle, le crude parole della
rivelazione il fragore dello sparo, la gestualità del parto, il pianto del
nato. Ecco tutto si conclude, la polvere della luna ha lo stesso odore della
polvere da sparo, la luna è una bugia, le aveva detto sua zia, ma lei è riuscita
a prendersi il buono e a metterselo dentro, sia pure attraverso l’infatuazione
ed il dolore.
Una figura vincente, un monito per le tante
donne vittime di uomini senza scrupoli e che amano(?) male, anzi che non sanno
amare
Bravo Marco De Simone, la tua sensibilità è
nota, riesci ad essere delicato anche con temi crudi, senza appesantire lo
spettatore ma soave nell’incantarlo. Il tuo sguardo a tutto tondo fa di te uno
scrittore apprezzabile e godibile.
Elena
Starace, eccezionale interprete, per freschezza, sensibilità
e capacità di delineare il personaggio con estrema bravura. Perfetta
l’impostazione della voce, dei gesti e la capacità d’incidere nello spettatore,
la sua storia.
Roberta
Greco, capace di delineare una quasi apparizione
Marcello
Andria, regia, una conferma, nel tradurre, ogni volta,
un pezzo in un capolavoro.
Voci:
Elio Amedeo, Chiara De Vita, Lina Vizzini, Lillo Zarbo